L’esame di terza media arriva dopo ben otto anni di scuola, cinque di primaria e tre di medie. Per ogni ragazzo di 13-14 anni arriva il primo vero appuntamento con una prova valutativa delle proprie competenze, capacità, percorsi sostenuti negli anni precedenti. È il tanto temuto esame delle medie, al via lunedì 15 giugno per circa mezzo milione di alunni italiani: l’esame è strutturato in maniera molto fitta e prevede prove scritte di italiano, matematica e lingua straniera predisposte dalle varie commissioni interne. Si aggiunge poi, venerdì 19 giugno alle 8.30, la prova Invalsi che ha il fine di verificare su scala nazionale i livelli generali e specifici di apprendimento raggiunti dagli studenti in italiano e matematica al termine del loro primo ciclo d’istruzione. Abbiamo raggiunto Giorgio Chiosso, pedagogista, ordinario nella Facoltà di Scienze della Formazione nell’Università di Torino.
Professor Chiosso, come ogni anno milioni di ragazzi si apprestano a sostenere la prima vera prova nella loro ancor breve vita scolastica, l’esame di terza media: Lei sostiene sia ancora un momento formativo? Come lo giudica?
Innanzitutto premetto che rispetto ad un anno fa non sono pentito per niente, il mio giudizio sull’esame di terza media è rimasto uguale: lo considero utile e, se sfruttato bene, molto formativo. Sono favorevole sia a questa prova che a quella di maturità, nonostante moltissimi docenti ritengano che queste prove siano inutili perché “bastano già le valutazioni e la preparazione svolta durante l’anno”, tipico giudizio di tipo efficientistico e molto limitato. Io invece ritengo che la scuola non sia soltanto un luogo di apprendimento, ma anche di formazione, di prove, di dimostrazione del senso di responsabilità, di rendere conto in sostanza di quello che sei capace a fare. Io addirittura in una scorsa intervista ipotizzavo di aggiungere un altro esame al termine dell’obbligo formativo (16 anni, ndr). A prescindere da tutto ciò, sono davvero convinto che le prove per un ragazzo siano utilissime perché lo mettono di fronte ad un esercizio a cui non è abituato, significa imparare a confrontarsi con un ostacolo imprevisto, un esercizio di maturità che va gestito bene, d’accordo, con la massima attenzione da parte della scuola, ma che è utile. Senza esagerare la difficoltà, questi ragazzi devono imparare a crescere, altrimenti se non si comincia subito ci ritroviamo, come sempre più spesso oggi, dei ragazzini alle superiori e degli adolescenti a metà strada all’università.
Rispetto alla tanto polemizzata, specie negli ultimi mesi dopo i casi di boicottaggio, prova Invalsi, lei cosa ne pensa?
Penso due cose: per prima cosa, tutti i processi di valutazione sono da rispettare e anzi vanno perfezionati sempre meglio, resi più affidabili. In questo il ministero ha una grossa responsabilità, deve tenersi molto in contatto con il mondo scolastico, questa prova non può essere una carriola che viene giù dal cielo senza alcun preavviso. Lo stato ha il diritto e il dovere di accertare qual è il livello medio di apprendimento, sono quindi favorevole alla prova di tipo nazionale; quello che mi lascia perplesso invece è che questa prova faccia media effettiva con le altre.
Perché?
Nella scuola dell’autonomia, che tutti noi auspichiamo e che già dovrebbe essere così, ogni consiglio di classe gestisce le situazioni con caratteristiche proprie e conoscendo meglio di chiunque altro le varie casistiche di ragazzi presenti. Questa prova va un po’ in contraddizione dunque con la possibilità che le scuole hanno per realizzare dei percorsi con autonomia: sono dunque favorevole ad una valutazione che dia una radiografia nazionale della situazione didattica, ma nello stesso tempo bisogna evitare il contrasto con la libertà lasciata, giustamente, alle scuole.
Cosa cambierebbe dunque?
I risultati delle prove Invalsi non devono rimanere lì solo per specialisti e ricercatori a futura memoria, ma devono diventare occasione per le scuole per poter davvero migliorare. È come se noi ci misurassimo la febbre, scoprissimo di averla e poi non facessimo nulla per curarla, non ha senso. Invece potrebbe essere una grande occasione per individuare meglio le aree di debolezza, andrebbero dunque stimolati dei reali interventi strutturali; il miglioramento non cresce laddove c’è debolezza cronica, cresce se si aiuta qualcuno a migliorare, anche se capisco che questo è un capitolo che meriterebbe ancora più spazio, perché tocca il problema dell’autovalutazione delle scuole.
Per quanto riguarda invece la questione, tanto temuta dagli studenti, della bocciatura, lei la reputa una questione ancora reale? In terza media esistono ancora dei casi? E quali sono i motivi principali che portano ad una bocciatura?
Premetto che non ho sottomano i dati sui livelli di bocciatura in terza media, ma ritengo comunque che se si boccia all’ultimo anno, la scuola un po’ ha fallito, esclusi ovviamente tutti quei casi limite problematici di ragazzi che vivono una pre adolescenza faticosa e con ambienti di vita famigliare difficile e perciò più esposti alla bocciatura anche tardiva. Sono però convinto che la scuola non ha fatto tutto quanto in suo potere se un ragazzo viene fermato al terzo anno piuttosto che al primo: io credo che la scuola debba davvero essere promozionale, cioè far crescere.
Si spieghi.
Bisogna riscoprire la dimensione orientativa della scuola, è una grande sfida e so bene che ci sono grandi difficoltà: un conto è parlarne così in un’intervista e un conto è poi andare ad operare in contesti che so essere molto difficili. Ma in linea di massima penso quello che ho detto, con la bocciatura in terza non sono stati usati fino in fondo tutti gli strumenti adeguati per far fronte alle varie problematiche.
(Niccolò Magnani)