Che un insegnante, un libro e una penna possano cambiare il mondo ci pare un’affermazione altisonante e gonfia di retorica. Abbiamo già imparato ad assumere negli anni di scuola un atteggiamento scettico, a tratti cinico, nei confronti dei maestri, dei professori che ci sono toccati in sorte, per non dire dei materiali didattici che strapazziamo fino alla disgregazione. Soprattutto, pensiamo che il mondo non si possa cambiare affatto, e forse neppure ci interessa. Abbiamo altro per la testa, quando stancamente aspettiamo il suono della campanella, dopo ore di quest’obbligo che si chiama scuola. Gli amici, la ragazza, la serata da organizzare. Quel giro in motorino, la partita di pallone. Insegnanti, libri, e pc, le penne sono uno strumento accessorio, sono l’intervallo forzato, dove non scorre la vita vera. Non danno neppure la garanzia di un lavoro, rispondono solo al desiderio o all’imperativo parentale o sociale. I nostri desideri sono altrove, se ne abbiamo.



Però, questa fiducia incondizionata nella scuola che può trasformare la realtà, nella scuola che può addirittura essere costruzione di diritti e di pace, non viene da una commissione di saggi o da qualche stanco politico pronto a rampogne, ma da una ragazzina di 17 anni, che ha saputo mantenere il candore della giovinezza, nonostante quello che ha passato. Malala Yousafzai è diventata un simbolo, per la brutale aggressione con cui fanatici talebani hanno tentato di far tacere la sua voce, che chiedeva con testarda ingenuità di poter studiare, anche se donna, anche se soffocata da una religiosità malata che considera la cultura infame e blasfema. Le hanno sparato in testa, perché da anni raccontava in un blog ripreso dai media occidentali — dunque demoniaci di per sé — che alle ragazze come lei è proibito studiare, leggere, sognare un lavoro. E’ viva, curata, accolta e rifugiata in Inghilterra, e non ha smesso di parlare, anzi. Non solo ai ragazzi del suo paese, il Pakistan, ma a tutti i ragazzi del mondo, alle istituzioni, a chi cerca di operare per il bene comune.



Non è accettabile che la conoscenza sia negata; non è accettabile accettarlo, magari rispolverando un distorto senso di differenze culturali e di civiltà. Ci sono le leggi e le convenzioni, e poco sarebbe, visto che leggi e convenzioni normalmente sono trascurate e trasgredite appena stilate; ma c’è soprattutto una coscienza personale e comune che ci attrae alla libertà, alla naturale voglia di sapere, che è un diritto di tutti, una promessa di cambiamento per ciascuno e per i popoli. Malala con un libro e una penna ha cambiato se stessa e sta cambiando il suo mondo, perché le sue parole arrivano a tanti suoi coetanei, la sua fama provoca, spiazza, mette alla berlina la follia dei regimi fondamentalisti, chiede responsabilità ai governi cosiddetti democratici, che si occupino dei diritti civili elementari non solo quando toccano i loro interessi.



Però, Malala dovrebbe interrogare anche noi. La prova che stiamo affrontando si chiama esame di maturità. Una parola che suscita ansia, che evoca un’idea antica di educazione, quasi un cammino a tappe prestabilite che non corrispondono quasi mai alla realtà, non tiene conto della diversità; sappiamo bene che “maturità” è un concetto relativo, e dipende dal significato che gli attribuiamo: non significa sapere tutto, ma avere un punto di vista, uno sguardo consapevole e appassionato, una ragione allargata e un esercizio della memoria per connettere le informazioni ricevute, e saper giudicare, scegliere. Non è un traguardo dell’intelligenza o della morale, né la fine di un cammino, casomai l’inizio di un interesse libero per la conoscenza. Una sfida, saper reggere alla naturale paura, mettersi in gioco da protagonisti, consapevoli sempre che non si tratta di un azzardo: aver studiato, magari continuare a studiare è un privilegio immenso, una possibilità affatto scontata.

Viviamo in un paese dove fortunatamente siamo introdotti nel mondo della scuola con una strada segnata, accompagnati, coccolati, protetti, seguiti. Nonostante tutte le pecche e carenze del nostro sistema, abbiamo avuto a fianco dei nostri anni d’infanzia e adolescenza persone pazienti e generose, e quelle irritabili o aride ci hanno in ogni caso allenato ad essere più forti, meno ingenui e instabili. Non abbiamo stima di loro, né confidenza, né voglia di sfruttarne al massimo il sapere. Abbiamo tutti i libri che vogliamo a disposizione, non solo per la didattica. Ci hanno detto che leggere è incontrare mondi, persone, capire e capirsi, crescere. Non dobbiamo neppure comprarli, ci sono biblioteche in ogni paese, in ogni quartiere, costano quanto due birre al pub, un film al cinema, mezza partita allo stadio.

Ci manca la voglia, di cambiare il mondo, di non subirlo, di non lasciarcelo scorre e addosso. Ci manca la voglia, l’anelito insopprimibile proprio dell’uomo a dare tutto se stesso, perché quel che impariamo serva a migliorare la vita, nostra e altrui. Se non è il sogno della giovinezza, sarà la stanchezza del vivere a portarcelo via. Ma a diciott’anni, non è possibile né giusto. A diciott’anni, quel “fatti non foste a viver come bruti…” dovrebbe farci fremere. Perché è vero, conoscenza e virtù vanno insieme, la pace, l’amicizia vengono dal sapere, anche la maturità vera è attrazione per la realtà, per l’infinito che la intride, e chiede un alto volo, per lasciarsi scorgere.

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