Il sentiero dei nidi di ragno, pur essendo la prima vera opera di Calvino, è già uno splendido esempio di quali possibilità offra lo strumento espressivo del linguaggio: tutto il romanzo infatti è caratterizzato da quella grande “leggerezza” che lo stesso Calvino attribuirà alla propria scrittura, parlando di sé nelle sue Lezioni americane. Una leggerezza che, pur “sottraendo peso”, porta in sé tutto il ricordo del peso attraverso cui è dovuta passare. E non sto parlando solo della leggerezza dello stile o del linguaggio, ma anche della leggerezza insita nello sguardo dello scrittore che emerge (ed emerge) durante lo snodarsi delle vicende di Pin. Una leggerezza che, lungi dall’essere una censura del peso e della concretezza della realtà, prova ad essere (a torto o a ragione) una sorta di contro-proposta ad essi.
Il passo in questione esemplifica bene tutto ciò: si tratta infatti del primo momento, potremmo dire, “di riflessione” del romanzo appena cominciato. La narrazione, da puntuale e consequenziale, si allarga, cinematograficamente, a un livello più alto, mettendo insieme diverse immagini in successione, senza dialoghi (con l’eccezione dei richiami delle madri degli amici di Pin) e lasciando emergere sprazzi meditativi, propri di un pensiero che si confonde fra quello di Pin e quello del narratore che rimane nell’ombra; il tutto senza interrompere il narrato, ma dissolvendo sapientemente gli elementi nuovi nel racconto che continua. E vediamo così Pin che, con l’amarezza data dall’aver fatto un brutto scherzo (con quella frase sentenziosa in apertura che ci innalza al di sopra della mera fattualità, al di là dello scherzo fatto da Pin al tedesco), vaga per i vicoli col desiderio di avere qualcuno con cui condividere qualcosa di sé (e questo “qualcosa” è esemplificato nei “nidi di ragno”), consapevole che la situazione in cui si trova, situazione di orfano lanciato brutalmente nel mondo, lo distanzia dai ragazzi della sua età, in parte curiosi di sbirciare nel mondo che Pin già comincia a intravedere chiaramente ma allo stesso tempo ancora incapaci di comprenderlo e ancora protetti dai richiami delle proprie madri. “E a Pin non resta che rifugiarsi nel mondo dei grandi”, un mondo sicuramente non accogliente ma nel quale, per un (a lui ancora) misterioso motivo gli appare come più congeniale, almeno per “smaltire la nebbia di solitudine che gli si condensa nel petto le sere come quella”, commuovendo, provocando e irritando quei grandi, nell’osteria, che appaiono anche più facili da prendere in giro.
La tensione che emerge fra il mondo degli adulti e il mondo dei “piccoli” è simbolo espressivo del sentimento di inadeguatezza che caratterizza spesso i ragazzini, soprattutto nella loro ricerca del proprio posto nel mondo. Ed è una tensione che caratterizza un luogo a metà fra i due mondi, una sorta di luogo di passaggio, nel quale Pin si è venuto già a trovare (forse troppo presto?) e nel quale i suoi coetanei ancora non sembrano essere arrivati. Lo iato che le madri protettive instaurano fra i due mondi, non contente che i propri figli passino dall’uno all’altro per la porta aperta loro da Pin, si oppone al sentimento di Pin a cui Calvino dà voce nel raccontare: e nella sua maestria quasi ci fa percepire, inavvertitamente, il passaggio dal proprio pensiero di narratore che descrive l’inconscio del ragazzino (“E a Pin non resta che rifugiarsi nel mondo dei grandi, dei grandi che pure gli voltano la schiena, dei grandi che pure sono incomprensibili e distanti per lui come per gli altri ragazzi”) al pensiero consapevole ed espresso, sogghignante e quasi “parlato”, di Pin stesso (“ma che sono più facili da prendere in giro, con quella voglia delle donne e quella paura dei carabinieri”). Non c’è in Pin nessuna attrazione per un mondo del genere, c’è anzi una profonda disillusione, ed è per questo che possiamo dire che il peso della concretezza della realtà rimane, anche nel tono scanzonato del Sentiero; contemporaneamente, sembra che un mondo del genere gli offra (come forse offriva a Calvino) la possibilità di acquisire uno sguardo sornione sulle cose, sui grandi così fragili, così pieni di fissazioni e paure, così da poter in qualche modo affrontare quello che sembra essere un mondo ricco di vuoto. È sicuramente più facile in questo caso che non in un mondo ingenuo (e forse meno fragile) come quello dei bambini, nel quale Pin tenta di intrufolarsi (“alle volte vorrebbe mettersi coi ragazzi della sua età, chiedere che lo lascino giocare a testa e pila, e che gli spieghino la via per un sotterraneo che arriva fino in Piazza Mercato”), ma dove si sente allo stretto: e così l’esclusione degli amici è solo il simbolo della propria “autoesclusione” da un mondo del genere.
Una tale dinamica e un tale struggimento interni a Pin sono sottolineati dal continuo ricomparire del suo nome: un riproporsi che sicuramente serve per esprimere il comune vociare del quartiere intorno al ragazzino (“è l’amico dei grandi Pin”, “Pin ha due braccine smilze smilze ed è il più debole di tutti”, “Pin non sa che raccontare storie d’uomini e di donne nei letti”), ma soprattutto serve per rendere palpabile la polarizzazione intorno al ragazzino sia dei vari commenti del quartiere che dei propri sentimenti, per darci l’idea di due occhi che, al limitare fra l’essere “del mondo esperti” e ancora bambini, osservano tutto e rapportano tutto a sé, in una ricerca affannosa e inconfessata del proprio io. E anche le altre reiterazioni, se da un lato ci offrono la sonorità di un parlare da ragazzini, dall’altro (con un medesimo fine di immedesimazione in Pin) ci danno l’idea di una ricerca instancabile, un po’ asfittica, verso la conoscenza di sé, del mondo e del possibile collegamento fra i due: “…nel mondo dei grandi, dei grandi che pure gli voltano la schiena, dei grandi che pure sono distanti”; “…voglia d’andare con una banda di compagni, allora, compagni cui spiegare il posto dove fanno il nido i ragni”.
L’immedesimazione si gioca anche a livello lessicale, con scelte che si avvicinano al parlato popolare e colloquiale (“Pin comincia a canzonarli per il carrugio“, “…finché non si stancano e cominciano ascapaccionarlo“), così come accade anche a livello sintattico (“Si avrebbe voglia d’andare…”, “cose che non si capiscono da indovinare”). Le enumerazioni poi permettono a Calvino di intensificare la riflessività, offrendoci una carrellata di immagini senza sonoro che vogliono veicolare una sensazione o un pensiero (si veda ad esempio la sequenza formata dalle varie scene dentro l’osteria) e che lo fanno emergere dai fatti raccontati.
È significativo, a questo proposito, come proprio la sequenza dell’osteria sia coronata da una frase alquanto sentenziosa, per accentuarne la riflessività: solo che in questo caso la frase va nel segno opposto rispetto all’atmosfera generale che le scene appena viste ci hanno consegnata. Forse non sarebbe esatto dire “all’opposto”: finora abbiamo assistito alla situazione di un ragazzino che, escluso dai suoi coetanei, sembra accettare la cosa e rivolgersi al mondo dei grandi al quale la vita lo ha già in qualche modo introdotto, in bilico fra una sensazione malinconica (“Pin si trova solo a girare nei vicoli”, “Ma i ragazzi non vogliono bene a Pin”, “Le madri hanno ragione”, “i grandi che pure gli voltano la schiena”) e una reazione scanzonata e quasi tranquilla alla situazione (“Pin comincia a canzonarli”, “[i grandi] sono più facili da prendere in giro”, fino alla citata scena dell’osteria). Ora, con quella frase finale, “per smaltire la nebbia di solitudine che gli si condensa nel petto le sere come quella”, Calvino ci fa sprofondare nella malinconia, svelandoci d’improvviso, dopo un accumulo di immagini che ha alimentato in noi una sensazione di ironia e furbizia quasi invidiabile, una profonda verità: tutta la leggerezza di cui possiamo armarci contro la realtà, quella realtà che spesso scopriamo ottusa e vuota, tutta l’ironia che può venire da una superiore consapevolezza (perché, paradossalmente, Pin è superiore agli adulti) della fragilità di coloro che ci stanno intorno, non possono impedire che emerga, nel nostro intimo, una “nebbia di solitudine”, condensatasi spesso proprio a motivo dei nostri tentativi di distrarci. È una nebbia provvidenziale, che ci dice che tutto, anche la realtà più squallida, fa nascere in noi un grido per un di più di cui abbiamo un estremo bisogno. Tutti noi siamo un po’ Pin, come lo era Calvino.