Il lavoro è al centro del dibattito pubblico degli ultimi mesi. Questo soprattutto a causa dell’elevato tasso di disoccupazione, soprattutto giovanile, che giustamente preoccupa gli osservatori nazionali e internazionali. Le cause di questa mancanza di lavoro sono molteplici e il suo aumento è certamente dato da una situazione congiunturale negativa che si protrae ormai da 7 anni, ma questa spiegazione non è pienamente esaustiva.



Se infatti stiamo assistendo ad un parziale recupero dei posti di lavoro in Italia negli ultimi due mesi è evidente dai dati di diversi rapporti internazionali (l’ultimo dell’Ocse è di poche settimane fa) che uno dei nodi principali da sciogliere è quello delle competenze. Non parliamo solo di quelle competenze tecniche che il sistema formativo italiano spesso non riesce a insegnare ai propri studenti per una distanza strutturale tra scuola e lavoro. Ci riferiamo alle cosiddette soft skills che le imprese cercano disperatamente e che si faticano sia a trovare ma soprattutto a certificare.



L’Unione europea ha riconosciuto questo fronte come uno dei più urgenti già in diversi documenti richiamati nel 2006 nelle Raccomandazioni del Parlamento europeo e del Consiglio nel quale identifica come “iniziativa chiave” quella di un “quadro europeo [che] dovrebbe definire le nuove competenze di base da assicurare lungo l’apprendimento permanente”. Di quali competenze stiamo parlando? Le ha elencate Ignazio Visco già nel 2004: “l’esercizio del pensiero critico, l’attitudine alla risoluzione dei problemi, la capacità di comunicare in modo efficace, l’apertura alla collaborazione e al lavoro di gruppo”.



Leggendo questo elenco potremmo pensare che si tratti di un pacchetto di competenze secondarie, o peggio ancora innate e quindi da un lato non fondamentali per il mercato del lavoro contemporaneo e allo stesso tempo difficili da insegnare all’interno di un percorso formativo. Al contrario, diversi report di società di consulenza e di agenzie per il lavoro individuano nell’assenza di tali competenze uno dei problemi principali di fronte ad un lavoro che nelle sue caratteristiche più importanti ha oggi la forte dinamicità ed evoluzione dei processi produttivi. Ci troviamo nella situazione paradossale che un ottimo ingegnere che possiede le più aggiornate competenze tecnico-scientifiche nel suo campo ma che non è in grado di lavorare in un team, o di adattare il proprio atteggiamento ad un cambio di programma, risulta poco utile ad una impresa.

In questo modo la formazione umanistica che in una ampia parte del ‘900 era stata considerata come secondaria ed esclusa dal gruppo delle competenze che contano, oggi rientra dalla finestra grazie alla freneticità dei sistemi produttivi e dell’economia dei servizi in continua evoluzione. Particolarmente lucida appare quindi l’analisi di M. Nussbaum che in un suo recente volume ha rilanciato l’urgenza di non far scomparire, fagocitate dal tecnicismo, le competenze proprie dell’umanesimo che ha nei secoli costruito la società occidentale.

Una rinnovata centralità della persona all’interno del mercato del lavoro d’altronde non può che passare dal recupero di categorie quali la relazionalità e la criticità. Saper lavorare con altre persone, saper riconoscere i problemi anche quando non riguardano la singola mansione a noi affidata, sviluppare una visione d’insieme dei diversi aspetti della realtà lavorativa che ci circonda sono aspetti chiave senza i quali una impresa oggi non riesce a rimanere su un mercato caratterizzato da forti onde improvvise che rischiano di affondarla di continuo.

È quindi importante capire dove sia possibile acquisire tutto ciò. Sicuramente non su volumi di organizational behavior ma nell’esperienza del lavoro stesso. Per questo è centrale l’integrazione di scuola e lavoro fin dai primi anni dell’istruzione secondaria, perché dove non arriva la formazione teorica, che è e resta fondamentale, possa arrivare l’esperienza di situazioni di compito in cui si plasma e si definisce la propria personalità in ambiente lavorativo.

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