Quando le navi fenice attraversarono lo Stretto di Gibilterra e si diressero a Nord, e si trovarono davanti il muro delle brume schiumose e algide, fu allora che dettero nome all’Europa: vuol dire “Terra delle tenebre”. Non tutti sono d’accordo con questa anamnesi filologica, ma dice una verità storica che stiamo sperimentando proprio oggi. E conferma una sindrome che si ripropone sempre, e che da geografica diventa storica: una sorta di dualismo tra Europa Atlantico-Baltica e l’Europa Mediterranea. Le tenebre del nord, la diffidenza, l’oscurità, il gelo contrapposti alla solarità mediterranea. E’ una visione semplificata, geopolitica e antropologica — del resto, come scrive Predrag Matvejevic, in Breviario mediterraneo, “Il Mediterraneo non è solo storia” —, ma di certo inesorabilmente si riproduce, ed ha avuto la sua acme dopo la scoperta dell’America. Fino ad allora il Mediterraneo era il centro del mondo, e dell’Europa. Esistevano conflitti, antagonismi, guerre. Eppure questo non impediva al mediterraneo di essere un’entità magnifica di interdipendenza sinfonica. Persino le guerre non interrompevano i commerci. Era interesse di tutti mantenere aperta la via della seta che da Venezia portava all’Oriente. 



Cristoforo Colombo, che più opportunamente meriterebbe il nome spagnolo, ha spostato il baricentro della geografia e con questo ha prodotto cambiamenti immensi, e perduranti. Dopo di allora è stato interesse delle potenze nordiche, dell’Europa del Nord e dei paesi anglosassoni, distruggere l’equilibrio sia pure conflittuale che dava prosperità al mosaico di popoli e paesi mediterranei protesi ad Oriente. La Francia e la Spagna hanno giocato da quel momento un ruolo alieno rispetto al loro essere Paesi mediterranei. La destabilizzazione dell’Oriente, cominciata con l’abbattimento dell’Impero Ottomano e la divisione artificiale successiva agli accordi di Sèvres, è esplosa negli ultimi anni con una strumentalizzazione occidentale delle “primavere arabe” per trasformare i Paesi rivieraschi in un caos senza possibile soluzione. Il tutto ha favorito un cambiamento qualitativo terribile dell’islam, dove è egemone, con varie denominazioni, la versione sanguinaria del jihadismo. E questo è oggi il bubbone di una peste prima sconosciuta, la quale sta contagiando ogni Stato del Maghreb di tradizione musulmana e punta a trasmettersi come un virus malvagio in Europa.



Occorre far essere di nuovo il Mediterraneo come un mercato dove non si scambiano solo merci, ma cultura, umanità; come luogo di vita dura ma positiva. Insomma: ridare vita al Mediterraneo, ormai simbolicamente trasformato in cimitero senza fiori. La volontà egemonica delle potenze in congiunzione nefasta con l’espansionismo criminale dello stato islamico lo ha reso uno di quei bacini artificiali che i romani usavano per i giochi e le battaglie navali, dove si udivano gli schiavi scandire: “Ave, Caesar, morituri te salutant” (Svetonio). Quel grido ci ferisce ancora e ci giunge “dai malmessi trabiccoli destinati ad affondare nel canale di Sicilia. Un mare che, anziché unire, erige nuove barriere tra la nostra e le altre sponde” (Paolo Frascani, Il mare). 



La geografia, e con essa la geopolitica, dice questo, oggi, alla nostra storia. Ma non è una dannazione. Non è un destino che dobbiamo subire inesorabilmente. Essa è una sfida alla libertà dei popoli che dovranno esprimere leader politici capaci non di risolvere tutti i problemi — non è mai accaduto nella storia — ma almeno di attraversarli con il desiderio di pace e prosperità, accettando il lascito vivente della tradizione trasmessa dai padri. Vale per noi, vale per i popoli del Maghreb. Il futuro o sarà di cooperazione e di meticciato mediterraneo, con il necessario governo di immigrazione e la sconfitta culturale e militare del jihadismo, oppure non ci sarà nessun futuro. Ma lo stesso varrà per l’altra Europa, quella del Nord. La solidarietà continentale non è solo un valore morale: conviene.

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