“È questo il fiore del partigiano/ morto per la libertà”. Sono queste le strofe più belle di una canzone troppe volte cantata come bandiera ideologica di una sola parte politica. Il destino di “Bella Ciao”, canto popolare antifascista italiano per eccellenza, fu quello di diventare icona della Resistenza solamente dopo la guerra, acquisendo popolarità in tutto il mondo. Ma nonostante ciò, nonostante l’appropriazione indebita che si fece e si fa di questa canzone — che appartiene a tutti, esattamente come la memoria della Resistenza — questa strofa rappresenta la chiave di volta per leggere tutto un periodo così cruciale per la nostra storia. Anni decisivi, fatti certamente di luci e di ombre, di eroismi esemplari ma anche di vigliaccherie e di crudeltà inaudite da ambo le parti (basti pensare alla strage di Marzabotto o all’eccidio di Schio), eppure anni eroici.
Anni in cui davvero venne dimostrato da parte di tantissimi e insospettabili quello che nelle sue memorie Dardano Fenulli definisce “l’amore doloroso, appassionato e geloso con cui si ama una patria caduta e schiava”.
Possiamo parlare di Resistenza solamente a partire dall’armistizio dell’8 settembre 1943, quando, a pochissime ore dalla diffusione radiofonica del messaggio del Generale Badoglio e mentre la famiglia reale abbandonava la capitale, a Roma un piccolo gruppo di antifascisti si riunì in via Carlo Poma, fondando il primo Comitato di Liberazione Nazionale. Erano Alcide De Gasperi, Pietro Nenni, Giorgio Amendola, Ugo La Malfa, Meuccio Ruini e Alessandro Casati, tutti successivamente protagonisti indiscussi della stagione repubblicana del nostro paese.
Il movimento di Resistenza crebbe velocemente, raggruppato in formazioni autonome che spaziavano dalle Brigate Garibaldi (capitanate da Luigi Longo, detto “Italo”) di ispirazione comunista, alle formazioni più vicine al mondo cattolico, a Giustizia e Libertà e alla galassia anarchica italiana. Ad una posizione “attesista” (che consisteva in piccole azioni di disturbo, sabotaggio e raccolta di informazioni in attesa dell’arrivo delle truppe angloamericane che risalivano la Penisola), le formazioni partigiane preferirono quasi subito un ruolo molto più attivo nel contrastare l’occupazione nazista, basato su veloci incursioni ma anche vere e proprie offensive tese a creare lungo la fascia appenninica settentrionale e collinare delle “sacche di libertà”, che successivamente prenderanno il nome di “piccole repubbliche”.
Il periodo più duro fu sicuramente quello tra l’inverno del 1944 e la primavera del 1945, quando, essendo gli Alleati bloccati lungo la formidabile Linea Gotica approntata dalle file tedesche, i partigiani si trovarono ad affrontare un inverno durissimo e a subire le rappresaglie più sanguinose della loro storia. Appartengono a questo difficile periodo, precisamente al marzo del 1944, gli eventi che rapidamente porteranno alla strage delle Fosse Ardeatine del 24 marzo: il massacro lucido e organizzato di 335 italiani, in segno di rappresaglia per un attentato partigiano realizzato il giorno precedente a Roma e che era costato la vita a 33 soldati tedeschi. Per la portata e per la sistematicità dell’eliminazione delle vittime, l’eccidio divenne velocemente al termine del conflitto il simbolo dell’estremo sacrificio di moltissimi italiani, vittime innocenti o coraggiosi martiri in una guerra di Liberazione senza esclusione di colpi.
Fra le vittime, c’era anche Dardano Fenulli, eroe della Prima guerra mondiale (durante la quale combatté coraggiosamente sulla Cima Bocche, cardine della difesa austriaca nel fronte del Trentino) e vicecomandante della divisione corazzata “Ariete” durante la Seconda guerra mondiale. Un soldato a tutti gli effetti, la cui lealtà — gli eventi successivi lo dimostrarono ampiamente — non andava ad un governo o ad una divisa, ma alla difesa della libertà del proprio paese. Fu per questa lealtà che l’8 settembre Dardano Fenulli non si arrese, come peraltro gli ordini ricevuti imponevano, ma entrò a far parte, come uno dei vertici, delle nascenti formazioni partigiane che operavano nella capitale e nel Lazio.
A leggere ora il suo “testamento spirituale” emergono chiaramente quegli elementi caratteristici, tematici e di linguaggio, che hanno fatto più volte definire la Resistenza da parte di illustri storici come Alberto Mario Banti, come un “Secondo Risorgimento”. Ed in fondo, queste ultime righe di Fenulli non hanno nulla a che invidiare al discorso romantico-nazionale di letterati e artisti come Foscolo, Manzoni, Berchet o Verdi. Esattamente come nel Risorgimento la lotta clandestina per un’Italia unita si nutriva non solo di illuminanti esempi ma anche di discorsi in grado di influenzare in profondità la ragione e i sentimenti di una parte significativa dell’opinione pubblica della penisola, così durante la Resistenza si sviluppa un’idea di Nazione attraverso le memorie, gli ultimi scritti o gli atti di persone come Dardano Fenulli.
Il suo è un patriottismo identitario vissuto come appartenenza, disponibilità all’estremo sacrificio e attaccamento estremo alla libertà che — spiace dirlo — poco ha a che spartire con un certo “neo-patriottismo” italiano o con i recenti rigurgiti nazionalistici ereditati d’Oltralpe.
Innanzitutto perché il neo-patriottismo (nato con il pregevole intento di mantenere l’integrità dell’unità statale italiana) ha finito per riproporre, con minime variazioni, il blocco discorsivo del nazionalismo classico — così come si era sviluppato tra Risorgimento e Fascismo — articolandosi intorno a parole-chiave, discorsi e rituali inadeguati ad affrontare le sfide del XXI secolo. Il nazionalismo “di ritorno” di cui si vedono ad oggi gli effetti trasversali su una numerosa parte della società italiana, dal canto suo, non rappresenta altro che un’abile strategia politica di ricerca identitaria: prova ne è il fatto che, per esistere, questo nazionalismo ha bisogno di un nemico contro cui coagularsi. L’unità iper-nazionalistica recente non può prescindere per continuare ad esistere e ad esercitare il suo influsso magnetico sulla società dall’identificazione di un avversario da sconfiggere (come l’Unione Europea) o di una minoranza linguistica da discriminare.
La differenza con il patriottismo di Dardano Fenulli e con il significato morale e civile dell’episodio delle Fosse Ardeatine è evidente. Non per dei rituali o dei discorsi ma per una ferma coscienza di appartenenza, non per un nemico, ma per un amore alla libertà del proprio paese: sono questi i due punti fermi che la memoria storica delle Fosse Ardeatine, di Dardano Fenulli e di molti altri eroi della Resistenza ci tramandano. Sperando che, di questo insegnamento, si faccia adeguata memoria nelle scuole e nelle famiglie, per non cadere nel pericolo citato in tempi non sospetti da Ugo Ojetti: “L’Italia è un paese di contemporanei, senza antenati né posteri, perché senza memoria”.
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