“Scusa, la conversazione può cadere da un momento all’altro perché non c’è campo”. A tutti è capitato più o meno spesso di doversi scusare con queste parole durante una telefonata, o di avere bisogno di telefonare urgentemente e non riuscire a connettersi alla rete. In quei momenti il nostro stato d’animo va incontro a sentimenti diversi: ci arrabbiamo con il gestore telefonico o il costruttore del nostro smartphone, entriamo in un’ansia profonda per non poter continuare la nostra importantissima conversazione, siamo presi dallo sconforto perché improvvisamente isolati, tagliati fuori, reclusi nel “limbo” dell’assenza di campo. Senza negare che questa assenza a volte può assomigliare a una benedizione -per esempio quando la persona che dovremmo contattare o che ci sta contattando è particolarmente sgradita o ci ricorda qualcosa di urgente e molto fastidioso- questa strana paura della sospensione della connessione deve fare pensare. E’ quasi un horror vacui al quale per qualche imponderabile motivo abbiamo deciso di sottostare, perché soffriamo il fatto di non poter essere sempre connessi, in comunicazione con tutti e, se mai l’internet delle cose diventerà un fatto reale e funzionante, con tutte le cose che ci circondano.
Il mondo nel quale viviamo è avvolto da questa rete impalpabile che costituisce l’odierna agorà nella quale tutti hanno il diritto e la facoltà di dire tutto di qualsiasi cosa: internet è una grande infrastruttura che permette un esercizio continuo della nostra voglia di comunicare, di incontrare, di parlare, di urlare, di interagire scherzando o lavorando. Per esempio, essere attivi sui social networks è un po’ come essere sempre al bar con gli amici, anche mentre siamo al lavoro: mando una importante mail al mio capo, e quasi contemporaneamente scherzo con i miei amici virtuali sui risultati del campionato del giorno prima, commento l’ultima mega-produzione hollywoodiana, consiglio l’ascolto di uno sconosciuto brano della mia band preferita, condivido un meme particolarmente comico sulle sparate di Renzi o Salvini. Come al bar, appunto, si reagisce a quello che passa per la testa o a quello che l’avventore casuale introduce nella discussione al bancone sollevando la testa dalla lettura del quotidiano.
Moltissimi iniziano a pensare criticamente a questo trend di costume e comportamento umano, e non senza ragioni. Se ci concepiamo sempre connessi grazie a internet e alle reti di telecomunicazione, il non essere in connessione è irrimediabilmente un di meno, un problema, un intoppo nello svolgimento della nostra quotidianità che ci imbarazza e in qualche modo ci lascia azzoppati o menomati. E’ proprio questa strana percezione di mancanza a venire messa in discussione criticamente: ma come — ci si chiede — siamo arrivati al punto di stare male perché non riusciamo a resistere a rispondere all’ultimo sms, al penultimo messaggino WhatsApp, alla mail che potevamo rimandare a dopo la fine del weekend? Dove va a finire la nostra vita familiare se anche il lavoro sfrutta il canale di comunicazione al contrario e invade la nostra intimità? Chi ha deciso che le cose debbano andare così?
Non possiamo fermarci a questo livello di critica senza approfondire il vero fattore in campo, che è quello che decide se e come utilizzare questi straordinari canali e strumenti di comunicazione: la persona. Perché si rimane sorpresi di fronte al sentimento di stranezza per la mancanza di campo o di connessione? Non ha forse l’uomo un bisogno insopprimibile di comunicare, condividere idee ed esperienze, coltivare rapporti? E da questo punto di vista non hanno le nuove tecnologie consentito cose impensabili dieci o vent’anni fa? Possiamo condividere documenti con l’altra parte del mondo e discuterli in tempo reale, dialogare con persone sparse nel mondo in conferenze virtuali, fare sentire la nostra opinione a un numero largo di persone, mantenere relazioni che per circostanze potremmo avere perso. Tutto questo è un bene, non un male.
Internet è una grande possibilità, eppure è anche un grande rischio: il rischio di guardarsi ossessivamente, come perennemente allo specchio, novelli Narcisi che dimenticano che quello che pubblichiamo, che postiamo, che inviamo nella grande rete globale deve trovare qualcuno dall’altra parte che legge, approva, commenta. Internet è un mezzo, uno strumento che consente ciò cui veramente siamo appassionati: la comunicazione, l’essere in collegamento “con”. Ma “il mezzo è il messaggio”, dice McLuhan. E il mezzo in questo caso è talmente potente e scintillante che ci irretisce in una dinamica che potrebbe farci scordare chi siamo, cosa sia una relazione “vera”, un rapporto “reale” e non virtuale.
Non che i rapporti via internet siano totalmente da denigrare: bisognerebbe piuttosto ricordarsi che sono parziali. Ma per fare questo è necessario tornare a osservare in profondità cosa ci renda più soddisfatti: cedere all’invadenza di un mare di dati che bussa continuamente alla nostra porta esigendo una risposta immediata, distraendoci dal mondo intorno a noi, o cercare con coraggio di stare attaccati a ciò che ci tocca in modo più profondo e reale, strappandoci dall’universo incantato del virtuale. Ma se è relativamente facile capire che un abbraccio, un incontro, una stretta di mano con qualcuno cui vogliamo bene sono molto di più di un like su Facebook o del commento sulle chat cui il nostro smartphone partecipa, molto diverso è il pensiero dominante rispetto a internet, che viene presentato come il mezzo che permetterà di risolvere tutti i problemi del mondo: è il soluzionismo, un’ideologia per cui a ogni problema si troverà il giusto algoritmo che risponde e internet sarà l’agente principale di questa rivoluzione. E’ la dottrina più o meno esplicitamente espressa dai “guru” della Silicon Valley, che contribuisce a farci vivere l’illusione di “un mondo nel quale tutto è possibile”, come dice Neo alla fine del film Matrix.
Ma di fronte a questa grande illusione di onnipotenza personale o sociale è ancora possibile porci domande scomode e radicali per ritrovare la giusta misura nell’uso dei mezzi di comunicazione, valorizzandoli per quello che sono realmente: che valore ha una relazione via internet? Che valore ha il tempo passato in connessione? Sono proprio internet e la possibilità di comunicare ed essere connessi la soluzione ai problemi che ci tocca vivere?
Ora più che mai, soprattutto in questi tempi nei quali grandi possibilità tecnologiche a lungo agognate dall’umanità intera si realizzano, è urgente tornare a pensare in modo attento e appassionato a quello che vogliamo realmente, ai nostri desideri più profondi e veri, a cosa sia il bene per la nostra persona. Scopriremo qualcosa di nuovo su di noi e sulle grandi possibilità che la tecnologia ci offre, senza cedere a tentazioni manichee che condannano o celebrano incondizionatamente.
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