“…per sé fuoro”. Canto III dell’Inferno: così Virgilio spiega a Dante la colpa degli angeli che non si schierarono né con Dio, né con Lucifero, e li pone nella compagnia degli ignavi, alle porte dell’Inferno. Furono per sé. Non presero posizione. Non si spesero per nulla, nel bene o nel male, se non per il proprio comodo, tenendosi fuori dalla lotta. Questa identificazione della colpa degli ignavi, drammatica quasi più di una dannazione, è quantomai attuale. È tutto il mondo progredito e moderno che funziona così, soprattutto il nostro avanzatissimo mondo occidentale. E le dimostrazioni potrebbero essere innumerevoli. Lo diceva bene Malraux: “Non c’è ideale al quale possiamo sacrificarci, perché di tutti noi conosciamo la menzogna, noi che non sappiamo che cosa sia la verità”. 



Esistono punti di resistenza a questo mainstream di pensiero così auto-limitante? Si potrebbe pensare che — per esempio — l’università rappresenti una sorta di porto franco, un’isola felice nella quale ci si spende liberamente per altre e alte prospettive, con passione e dedizione: per l’incremento della conoscenza, per grandi e positivi ideali di pensiero, di costruzione e generazione, per il bene della persona e della società umana tutta. Purtroppo, nella maggior parte dei casi, l’università appare sempre di più il punto sintetico della proposta di una cultura che punta soprattutto al tornaconto personale. Al comodo. Alla sistemazione personale. E tutte le università del mondo cercano di assomigliarsi, grazie alla lettura dissennata dei ranking che amplificano certi modelli. 



A cosa porta infatti tutta l’enfasi sulle proprie capacità, sul progetto della propria carriera, sul gioco dei propri talenti se non a creare anime isolate e dedite al calcolo e alla misura? Anche tutta la sottolineatura del “merito” è diventata la banale retorica della misura del “per sé”. E le soft skills diventano surroghe di umanità, tecniche per “arrivare”. Stiamo creando gente che sa calcolare tutto ciò che è “per sé”. Fa impressione pensare a quello che Heidegger diceva, e cioè che l’essenza del calcolo è “divorante”. Divorante dell’umano. Divorante delle persone.



Ma qualcuno sa cosa accade negli studenti? Mi capita sempre più di osservare che l’esito di questo spostamento dell’enfasi sul “per sé” sia uno spaesamento da parte di chi si trova ora nel percorso formativo. Come in uno strano e ironico gioco di specchi rispetto al racconto dantesco, “spingere” sul “per sé” alimenta la percezione di alcuni più sensibili di trovarsi in un “limbo”: percepiscono cioè di trovarsi in un momento di sospensione, che dilata il passaggio fra la scuola e l’ingresso nella vita adulta e nella maturità. Lo si capisce bene parlando e passando il tempo con gli studenti: cosa sia l’università — al di là dell’essere luogo dell’offerta formativa intesa come un “servizio” — quasi nessuno lo sa. 

Né si hanno molte occasioni per incontrare punti di vista sufficientemente profondi e liberi da logiche funzionalistiche o meccanicistiche, quelle per cui vale il refrain “studio perché così poi potrò ambire a certi posti di lavoro nel mercato globale”. Questo è addirittura evidente quando si chiede “ma tu cosa vorresti fare veramentePer cosa stai spendendo questi anni?”

Possiamo permettere che intere generazioni di studenti non abbiano coscienza della natura del luogo in cui stanno spendendo i loro anni più importanti e per cosa li stiano spendendo? Abbiamo il diritto di decidere noi, più vecchi, per loro? E chi alla fine trarrà il profitto da un mondo di zombie ben pagati, alieni a sé stessi e a ciò che più profondamente si mostra umano e quindi ben controllabili?  

Di fronte allo spettacolo di efficiente processo produttivo di eccellente materiale umano quale si dimostra l’università moderna, è sempre più urgente il momento che qualcosa cambi. Forse sperare che gran parte dei professori cambi mentalità è un’aspettativa che troppo facilmente potrà andare disattesa: troppi interessi, troppe ramificate relazioni ed equilibri frenano eventuali uscite dal coro. La riscossa perciò dovrebbe partire dal basso. Verrebbe da dire “studenti di tutto il mondo: unitevi!”. Unitevi non per distruggere, come già avvenuto dal ’68, nonostante le grandi aspettative, e poi soprattutto negli anni 70, ma per difendere ciò che di più prezioso avete: voi stessi. 

Charles Péguy diceva che “non basta essere nati per vivere”. Si può essere indifferenti a una sfida così? E’ una sfida cruciale, è forse la sfida più enorme degli anni che viviamo: che un giovane studente occidentale mediamente benestante e istruito prenda coscienza di sé, del suo infinito bisogno, che nessuna carriera potrà mai soddisfare, e cerchi con decisione e passione luoghi, persone, testi, occasioni di crescita umana, mentre si arricchisce di competenze tecniche.

Verrebbe da dire a ogni studente che, paradossalmente, mettere a nudo la propria debolezza, il proprio limite, il proprio bisogno, potrebbe essere lo spunto giusto per la ricerca dell’incontro con chi sfida la quotidianità, con chi costringe a uscire da facili e meccaniche posizioni di rendita, con chi non si accontenta di fare il proprio compitino, quand’anche riempia temporalmente gran parte delle giornate. Se infatti la responsabilità dell’offerta è dei professori, quella del rischio e della critica dovrebbe essere degli studenti. Ma per fare questo ci vuole coraggio, coraggio che le giovani generazioni spesso non hanno o non dimostrano. Al silenzioso grido di spaesamento di molti fra gli studenti dovrebbe forse corrispondere la visione reale e concreta di una possibilità nuova: che chi è dall’altra parte della cattedra faccia la fatica con i propri colleghi di vivere il rischio di una domanda reale sul senso, il valore e il futuro dell’università e di chi la frequenta. Da persone che condividono pubblicamente una passione per il luogo ricco di storia e tesori che è l’università potrebbe nascere qualcosa di veramente nuovo, non previsto dal “sistema”, e ricco di fascino anche per il più fragile e timido fra gli studenti.