L’attuale esame di Stato, introdotto per la prima volta nel 1999, non ha ancora raggiunto la maggiore età e già mostra i primi segni di incipiente vecchiaia. Lo volle l’allora ministro dell’Istruzione Luigi Berlinguer per superare il modello della sperimentazione varato sull’onda della contestazione nel 1969. Con l’altisonante definizione di “esame di maturità”, il modello in vigore dal 1969 al 1999 voleva superare l’odiatissimo nozionismo, ma non andò tanto lontano e più che le nozioni, limitò le conoscenze. Con Berlinguer invece si mirò alto e oltre all’inserimento del colloquio multidisciplinare si volle introdurre il peso del percorso scolastico (il cosiddetto credito, che viene attribuito a ogni singolo studente per ogni anno del triennio); in più un terzo scritto con modalità del questionario o del quiz (a risposta multipla) che doveva misurare le conoscenze delle altre materie orali. 



Per non incorrere poi nell’arbitrio delle commissioni e per ovviare alle disparità tra scuole, venne scelto il modello concorsuale, secondo il quale gli esaminatori attribuiscono punteggi separati l’uno dall’altro, che solo alla fine vengono sommati e producono il voto finale. Un ingranaggio in divenire che, nel tentativo di favorire l’obiettività, più che la persona nel suo insieme, con qualità e competenze, misura le singole prestazioni. Per di più le commissioni non possono conoscere il risultato finale se non dopo il colloquio e l’attribuzione del cosiddetto bonus di 5 punti, con cui vengono premiati gli studenti migliori per raggiungere il massimo dei voti (100/100) o avvicinarsi alla meta. 



Ma per spiegare l’ingranaggio che macina letteralmente gli studenti andiamo con ordine e torniamo dall’inizio.

Il credito scolastico per un massimo di 25/100 viene attribuito negli scrutini degli ultimi tre anni del percorso di studi in base alla media matematica dei voti, con un punto in più ogni anno se l’alunno ha svolto attività formative di vario genere. Questa dote viene sancita definitivamente allo scrutinio di ammissione. Poi ci sono tre prove scritte valutate in quindicesimi che al massimo permettono di ottenere 45 punti. Tra queste svetta la cosiddetta “terza prova”, emblema dell’artificiosità del sistema e paradigma del meccanismo in divenire. E’ composta da 4, 5 discipline con questi aperti (risposta in 20 righe) o chiusi (risposta multipla con 4 opzioni) e ogni elaborato è valutato in quindicesimi: la somma dei risultati viene divisa per le materie in cui si sono misurati i candidati e si arriva così alla valutazione. E’ complicato? Facciamo un esempio. Inglese 11, fisica 12, storia 10 e latino 9, danno una somma di 42 che diviso per 4 fa 10,5, punteggio che viene elevato a 11 il quale per tutti i mortali significa aver raggiunto in decimi il famoso 6/7, o 7- che dir si voglia.



Il labirinto però non è finito. Pubblicati i voti delle tre prove e tenuto conto del credito acquisito, nessuno sa con quale voto si diplomerà  l’allievo. Manca il colloquio orale interdisciplinare: della durata di circa un’ora, consta al massimo di 30 punti, come all’università. Inizia con la cosiddetta testina o argomento di partenza, scelto dallo studente. Prima di internet poteva avere un senso, ma oggi è l’inno alla scopiazzatura, al collage di brani, alla rimasticazione di argomenti desueti. Il tutto con la frequente tolleranza dei docenti, che preferiscono uno schema al testo completo, per evitare di strapparsi le vesti. In quest’occasione viene valorizzato il nesso tra argomenti di varie discipline, ma spesso il risultato finale è uno zibaldone di argomenti con legami tirati per i capelli.

Tutto finito? Non ancora. In sede di scrutinio finale la commissione può attribuire il cosiddetto bonus di 5 punti, che può essere assegnato dalla commissione a tutti gli studenti che raggiungono almeno 15 punti di credito complessivo e 70 punti nelle prove d’esame. Visto che tutto deve essere trasparente e oggettivo (i tre scritti e il colloquio hanno delle griglie di valutazione stabiliti dalla commissione), anche qui i criteri sono stati stabiliti prima. 

Ecco ancora l’ingranaggio diventare quasi kafkiano. Gli studenti che raggiungono 98 o addirittura il 99/100 rimangono al palo, perché la procedura è talmente rigida che non si può modificate nulla. E’ il paradosso del trionfo di una somma di parti immodificabili a discapito dell’insieme. Inoltre la rigidità concorsuale trova spazio anche nei livelli di sufficienza qualificata, stabilita a priori in 10/15 (e non 9/15) per gli scritti e in 20/30 e non 18/30, per gli orali. L’arcano segreto si compone alla fine, nello scrutinio finale, in cui, calcolatrice alla mano, i commissari, da bravi ragionieri — e non docenti che hanno seguono i loro alunni sotto gli aspetti  formativi e scolastici — sommano le parti e asetticamente decidono il voto. 

Questo esame di Stato è superato proprio per il criterio che sovrintende al suo meccanismo: un ingranaggio che macina gli studenti, non si preoccupa della loro formazione, delle conoscenze e competenze, ma solo del rispetto formale delle procedure. C’è solo un soggetto che trionfa: le burocrazie ministeriali. Gongolano perché almeno una volta all’anno ispettori, dirigenti, presidenti di commissione possono contare qualcosa; una volta all’anno sono al centro dell’arcipelago scuola. Così prevale il centralismo e non l’autonomia. Ma chi sono gli studenti qualcuno lo sa?

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