Andare oltre le polemiche, oltre i troppi muri di gomma, culturali e sindacali: sembra un compito che pochi sono disposti ad assumersi, nel faticosissimo percorso di approvazione della cosiddetta Buona Scuola renziana, che ieri ha superato lo scoglio del Senato con un voto di fiducia (159 sì, 112 no; il 7 luglio sarà alla Camera, ndr).
Oramai, al di là dei pro e contro su qualsiasi proposta di legge, Buona Scuola compresa, siamo al tifo da stadio. La prima e vera negazione del senso culturale della stessa vita scolastica, cioè di professionalità che sanno che il dialogo formativo è prima un dovere che un diritto.
Ma per poter dialogare è necessario individuare un punto di partenza, endoxa lo chiamavano i greci, una sorta di punto di Archimede argomentativo. Solo per iniziare una discussione, un ragionamento. Al di là, lo ripeto, degli inevitabili pro e contro su un ddl che non è, ovviamente, tutto rose e fiori.
Perché, alla fin fine, per chi è in prima linea nella vita delle nostre scuole, a contatto diretto con i nostri studenti e le loro famiglie, ed in dialogo concreto col nostro tessuto sociale, resta la responsabilità di rappresentare comunque un punto di vista positivo. Nonostante le norme e le risorse materiali. Nel senso che, alla fine, tocca alle persone trovare, giorno dopo giorno, le mediazioni positive per poter corrispondere alle sempre nuove responsabilità. Le quali oggi più di ieri ci impongono di leggere il cambiamento, di ripensare, oltre le singole discipline scolastiche, i nuovi simboli culturali.
Siamo in grado di sostenere l’onore e l’onore di questa mediazione, come presidi, come docenti? Secondo quali strategie educative e didattiche? Ha ancora senso, ad esempio, il modello ottocentesco delle classi e della divisione per livelli di età degli alunni? Ha ancora senso il valore legale del titolo di studio? I modelli organizzativi e di responsabilità diffusa, secondo la vecchia logica assembleare ancora oggi accanitamente difesa, sono funzionali alla nuova domanda di servizio pubblico?
Dovremmo azzerare tutte le polemiche di questi mesi e ripartire da queste domande. Secondo però un pensiero costruttivo, che riconosca nelle persone la “risorsa prima” delle nostre comunità scolastiche. Anzitutto presidi e docenti.
Perché oggi non sono anzitutto le strutture che possono corrispondere alle esigenze della nostra “società aperta”, ma le persone. Secondo sensibilità, talento, disponibilità, passione.
E’ questo in sintesi il punto più controverso. Difendendo il collettivismo anni Settanta — ad esempio del collegio dei docenti, ma anche di una pletorica commissione sulla valutazione dei docenti come prevista dall’ultima stesura della Buona Scuola — in realtà non si è riconosciuto proprio questo punto-cardine: che la responsabilità del proprio “servizio” è anzitutto personale, poi collettiva.
È personale da parte del direttore generale nei confronti dei presidi già oggi, tanto che questi possono essere spostati di sede se non fanno, sinteticamente, un buon servizio; è personale quando i docenti valutano i propri studenti, al di là del ruolo collegiale del consiglio di classe, ma non è personale da parte del preside nei confronti del personale della propria scuola. Si ha paura, si teme, si sospetta. Ci può essere qualcuno che si comporta in modo scorretto? Ci vogliono le progressive responsabilità, cioè le varie garanzie, perché uno sia messo di fronte alle proprie responsabilità. Che sia preside, oppure docente, oppure bidello.
Non ci si fida invece non solo degli altri, ma nemmeno della certezza del diritto. Meglio la maschera collettivista: non a caso continua a dominare l’idea che l’autonomia scolastica (declinazione dell’etica della responsabilità) debba essere governata in modo centralistico. Solo il “centro”, cioè il ministero, sa, e in quanto sa, dispone. Le persone, nelle loro responsabilità dirette, invece, no: “tutto ciò che non è permesso, è vietato”.
Ancora una volta, in poche parole, non ci si fida. Da un lato perché, centralisticamente, così si controlla tutto e tutti, e poi perché, comunque, è comodo così: c’è uno che pensa per tutti, cioè la vecchia “democrazia delle circolari”.
Cultura dei risultati? Ovvio pretenderli dai nostri ragazzi, durante gli scrutini, per nulla ovvio chiederla ai valutatori. Questa cultura della responsabilità, in spregio delle contraddizioni, è data per scontata in tutto il resto del mondo del lavoro, ma è negata nel mondo della scuola (non sui giovani, ma sui loro valutatori), e così si preferisce mascherarsi dietro alle solite parole magiche: diritti, libertà di insegnamento, scuola pubblica.
E così, di maschera in maschera, passano gli anni, con riforme da tutti volute e richieste, a parole, ma alla fine sempre “altre” da quelle proposte, proprio perché la vera richiesta, inconfessabile, è quella di lasciare tutto immutato. Perpetuando così, dietro le tante ipocrisie, quell’individualismo egoistico che è la vera cifra culturale del nostro tempo.