Alla fine la montagna ha partorito il più classico dei topolini; e nemmeno tanto in salute. Del grande disegno riformatore, annunciato con tanta enfasi a settembre scorso nelle oltre 130 pagine della Buona Scuola, resta ormai ben poco nel maxiemendamento approvato giovedì scorso al Senato; e di quel che resta quasi nulla piace alla scuola. Un’altra occasione mancata. 



Il fatto è che la riforma nasce con un vizio di fondo: al primo posto vengono messe le assunzioni dei docenti e non un’idea, un principio su cui poggiare educazione e istruzione. Forse non è un caso che il documento anticipi di pochi giorni la pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione Europea sull’abuso da parte dell’Italia nella reiterazione di contratti a termine oltre i 36 mesi, che costringerà il Governo a stabilizzare decine di migliaia di precari. La riforma viene costruita attorno al piano straordinario di assunzioni pensato per rispondere a questa emergenza, con tutto il complesso sistema che ne consegue per stabilizzare il personale neoassunto e cercare di impedire che la storia si ripeta. In tutti questi mesi il piano di assunzioni straordinarie e le disposizioni ad esso connesse hanno continuato a fare da colonna portante nei vari passaggi legislativi fino ad oggi, mentre il resto è stato progressivamente minimizzato o demolito. Per rendersi conto di questo basta una rapida ricognizione delle troppe “promesse mancate”.



Dopo mesi di consultazione, forti contestazioni (non solo dal mondo della scuola) e alcuni tentativi non riusciti di costruire una legge di riforma organica, il 12 marzo scorso il Consiglio dei ministri approva un disegno di legge delega: una prima sensibile riduzione del disegno originario. Ben quattordici le deleghe, tra le quali revisione degli organi collegiali, formazione iniziale e reclutamento dei docenti, semplificazione legislativa, nuova governance delle scuole, introduzione del sistema integrato di educazione e di istruzione dalla nascita fino ai sei anni. Ma intanto il disegno originale della Buona Scuola comincia a perdere pezzi importanti e a prendere derive discutibili. 



Sparisce l’ipotesi di una progressione economica in base alla valutazione delle competenze professionali e restano gli scatti di anzianità. Il complesso — e molto discutibile — sistema di carriera dei docenti basato sul merito presentato nella Buona Scuola viene sostituito da un bonus annuale; una sorta di “gratifica” di piccole dimensioni (200 milioni), da distribuire tra un ristretto numero di docenti in base al giudizio del dirigente scolastico; con un approccio totalmente approssimativo, che non rende certo ragione di cosa voglia dire carriera per un insegnante. 

Calano da 150mila a poco più di 100mila le immissioni in ruolo previste, a causa della impossibilità a rientrare nei parametri di spesa stabiliti dalla legge di stabilità; salta quindi l’ipotesi iniziale di chiudere tutte le graduatorie a esaurimento. 

Aumenta senza alcun criterio la “bulimia disciplinare” già presente nelle proposte della Buona Scuola; le nuove alfabetizzazioni e gli incrementi di orario proposti spingono a gonfiare in modo incontrollabile i piani dell’offerta formativa delle scuole. 

Crescono anche in modo incontrollato le prerogative dei dirigenti scolastici, senza alcuna previsione formativa corrispondente; con tutta la fallimentare debolezza di una concezione della gestione del servizio pubblico che non contempla un esame preventivo dell’esistente e opportune misure correttive, ma solo una valutazione punitiva ex-post

Durante il passaggio alla Camera il provvedimento ha subito aggiustamenti ambigui, quasi tutti al ribasso, e ulteriori riduzioni. 

Il dirigente non sarà più solo a decidere sul bonus annuale perché dovrà utilizzare i criteri definiti dal comitato di valutazione; però, il comitato viene ridimensionato rispetto alla composizione attuale: a valutare l’operato dei docenti, sia ai fini del bonus che per l’anno di prova, vengono chiamati i genitori e, alle superiori, anche gli studenti; introdurre in questo modo la customer satisfaction nel sistema di valutazione di competenze e capacità professionali dei docenti — unica tra i vari settori professionali — è una scelta chiaramente demagogico-utilitaristica. 

L’autonomia scolastica esce ridimensionata rispetto alle proposte fatte nel documento iniziale della Buona Scuola: la gestione delle scuole si va stabilizzando su un’autonomia attuativa più ampia (reti di scuole), ma è sottoposta a maggiore centralismo in termini di scelte di indirizzo; la formazione obbligatoria dei docenti viene definita a livello ministeriale e attuata obbligatoriamente secondo le scelte delle scuole (o loro reti); si passa da una visione delle prerogative del dirigente scolastico eccessivamente verticistica ad una sostanziale riduzione delle sue competenze, vincolate a prassi decisionali basate su organismi ormai obsoleti.

Il primo progetto di legge prevedeva sgravi fiscali per le spese sostenute dalle famiglie nell’educazione dei figli all’interno del sistema nazionale di istruzione; spese che, per la definizione stessa di sistema nazionale, coinvolgono tanto le famiglie con figli nelle scuole statali quanto quelle che si rivolgono alle scuole paritarie. L’importo massimo di 4mila euro indicato inizialmente per il calcolo della detrazione era già stato ridotto a 400 euro nel ddl e così mantenuto dalla Camera. Se è vero che passa finalmente il principio che la spesa per l’istruzione è anche un investimento delle famiglie per il futuro del Paese, la sostanza (circa 76 euro annui) è poco più che simbolica.

Cancellato dalla Camera l’articolo che prevedeva la possibilità di devolvere il 5 per mille delle imposte alle scuole come contributo al loro funzionamento.

Sparite completamente le deleghe per la riforma degli organi collegiali e della governance delle scuole; dispersa la delega per l’ampliamento delle competenze gestionali, organizzative ed amministrative delle scuole. Nell’insieme, un ulteriore affievolimento dell’autonomia.

Dopo qualche tentativo (fortunatamente fallito) di ridurre ulteriormente la libertà d’insegnamento e l’autonomia delle scelte metodologico-didattiche dei docenti, al Senato è comparso il maxiemendamento, poi approvato con voto di fiducia giovedì scorso; motivazione: rientrare nei tempi per le immissioni in ruolo dei precari a settembre prossimo. 

Poche le modifiche rispetto al testo della Camera, quasi tutte dirette alla salvaguardia delle assunzioni previste e a “calmare” le opposizioni interne alla maggioranza. Il risultato è un testo disomogeneo, prevalentemente centrato sulle assunzioni (che aumentano, ma in modo sbilanciato), con meno autonomia per le scuole e per i dirigenti, più incertezza nelle disposizioni. 

Le graduatorie a esaurimento, dalle quali si attingerà per le assunzioni, presentano situazioni anagrafiche e di servizio alquanto precarie: la maggior parte degli iscritti ha un’età che va dai 35 ai 50 anni; oltre 26mila hanno età comprese tra 50 e 66 anni e di questi quasi 1.800 vanno dai 60 in su. Ma il fatto più preoccupante è che parte di loro non ha quasi mai fatto scuola o non insegna da anni. Un’immissione in ruolo senza controlli non solo rischia concretamente di rivelarsi deleteria per la qualità della didattica — e quindi per gli studenti —, ma produrrà anche seri problemi all’assetto organizzativo delle scuole. Anche qui, un controllo ex-anteridurrebbe gli effetti devastanti di “bocciature” al termine dell’anno di prova (che peraltro conserva la possibilità di essere ripetuto per un anno).

Le pur buone scelte riguardanti, ad esempio, l’introduzione del curriculum dello studente con l’opportunità di percorsi personalizzabili attraverso materie opzionali, la Carta elettronica del docente per le spese professionali, l’incremento sostanziale dei finanziamenti annuali per l’alternanza scuola-lavoro e la sua estensione a tutti i percorsi del triennio della secondaria di secondo grado, non sono sufficienti a controbilanciare gli effetti negativi di questo intervento normativo. 

La sostanza della questione è che sotto il nome altisonante di “riforma della Buona Scuola” passa un provvedimento del tutto parziale, che tenta di risolvere una parte delle emergenze: la stabilizzazione dei precari. E il problema è che pure questo aspetto particolare — molto più complesso, esteso e drammatico di quanto il provvedimento sembra percepire — continua ad essere affrontato con la stessa logica fallimentare del passato, che alla fine non farà altro che incrementare il contenzioso nelle scuole.

Una Buona Scuola nel nostro Paese è possibile e in non poche realtà è già un fatto consolidato; almeno laddove docenti appassionati al loro lavoro incontrano colleghi aperti al confronto e dirigenti in grado di valorizzare le qualità e l’impegno dei singoli, accogliere e sostenere le diversità metodologiche. Da tempo nella scuola italiana convivono positivamente diverse visioni sull’insegnamento, anche distanti tra loro; la vera buona scuola non si fa scegliendo normativamente una delle tante opzioni sul tappeto ed imponendola centralmente, né togliendo alle singole scuole spazi decisionali in ambito professionale. Al contrario, occorre aumentare gli spazi di libertà dei singoli e l’autonomia delle comunità educative, valorizzare le singole professionalità che ci sono nelle scuole e favorire un approccio cooperativo tra le diverse realtà ed opzioni metodologiche presenti, istituire un sistema di valutazione oggettivo e rigoroso dotato di poteri effettivi e ridurre al minimo il contenzioso attraverso norme chiare e certe.