A cosa serve un esame di Stato che promuove il 99 per cento degli studenti? A cosa serve un esame di stato la cui valutazione non interessa nessuno, visto che le università hanno introdotto i testi di ingresso? A cosa serve un esame di Stato dai costi altissimi e dalla resa minima? A cosa serve un esame normato sino al minimo particolare se poi i risultati sono difformi (e di tanto) da commissione a commissione a tra Nord e Sud del paese?
Domande sostanziali, ma che non interessano alla maggior parte dell’establishment politico governativo, che alla sostanza preferisce la forma. Il dibattito sul sistema educativo e scolastico si è fermato sull’assunzione di 100mila precari e sul preside manager. Ai sindacati, che stazionano nei gangli del sistema formativo italiano, certo non interessa una scuola in cui si curi la qualità degli allievi, che sia rigoroso nella valutazione delle conoscenze, che stimoli l’acquisizione delle competenze, che indirizzi adeguatamente sulle scelte future. Non è nel Dna delle organizzazioni dei lavoratori. La scuola poi non agita i sogni del mondo politico; le opposizioni la usano per mettere in crisi le politiche governative, l’esecutivo se ne fa scudo per mostrare la propria coesione parlamentare.
Nel frattempo, scendendo a terra, sono in corso gli orali dell’esame di Stato. Un colloquio che scimmiotta il vecchio esame orale, fatto su tutte le discipline, che gli studenti liceali affrontavano prima della riforma del 1969. Sull’impianto dell’esame di Stato abbiamo già detto. Un meccanismo che macina gli studenti, li seziona e, misurando separatamente le conoscenze, utilizza un ingranaggio in divenire, in cui l’intero è la somma di addendi separati l’uno dall’altro senza che i commissari possano in qualche modo intervenire. Ammettono lo studente e pubblicano il credito scolastico del triennio, il quale a sua volta è la somma di tre operazioni distinte (ogni anno ha prodotto il suo credito, reso pubblico a giugno a fine scuola). Inizia l’esame e i commissari pubblicano il risultato delle tre prove scritte; poi si va all’orale e a fine mattinata, dopo l’esame dei 5 candidati di ordinanza, assegnano il voto definitivo, che però non rendono pubblico. Infine nello scrutinio finale viene concesso l’eventuale bonus di 5 punti agli studenti migliori e i commissari, come perfetti ragionieri, con il presidente della commissione nelle veci di un capo contabile, realizzano il voto finale.
Se tutto è già cristallizzato e ogni passo diviene immodificabile, più che lo studente nel suo insieme si valutano le singole prestazioni. E qui sta l’inghippo. Infatti spesso i conti non tornano e chi ha esperienza di commissione d’esame sa benissimo che invece devono tornare. Chi non è mai entrato in una sessione di scrutinio o d’esame non se lo immagina.
Mentre si correggono la prima prova e la seconda, i commissari, specie quelli interni, iniziano a fare le proiezioni, sommando i crediti e i risultati degli scritti. Spesso emerge la discrasia tra andamento scolastico e prove d’esame: “Questo punteggio è troppo basso, per cui Tizio non ottiene il bonus” (bisogna raggiungere 70 punti tra prove orali e scritte), oppure: “Caio ha valutazioni minime e per farlo passare bisogna dargli più di 25/30 all’orale, altrimenti non ce la farà mai”.
Insomma si valuta, si misura, si fanno proiezioni e si modificano i voti sinché i conti non vanno a posto per ottenere i risultati sperati. Il tutto ovviamente senza lasciar traccia sui verbali. Non meraviglia che in questa fase (come agli scrutini del triennio, in cui i voti ballano verso l’alto per alzare la media, la quale poi permette di raggiungere un certo punteggio di credito scolastico) si apra il mercato delle vacche. Una sorta di contrattazione in cui i presidenti o i commissari alzano il punteggio per favorire “il successo formativo”.
Ma anche gli scrutini ordinari funzionano secondo questa logica: “mancano tre punti per alzare il credito… chi cambia?”. Molti docenti si adeguano, ma tanti altri, più rigorosi, lo negano. Così iniziano diverbi a non finire che sfociano in liti accese tra rigoristi e lassisti. Alla fine c’è sempre un’anima generosa perché presa dallo sconforto di discussioni infinite. Il problema, intanto, resta: regole su regole stratificate negli anni per garantire l’oggettività, che in realtà, aumentando di anno in anno, hanno reso l’ingranaggio più macchinoso dell’orologio di Piazza san Marco a Venezia.
Tutti gli anni esce l’ordinanza ministeriale che diviene il vangelo per presidenti e ispettori ministeriali. Nel 2015 due novità: gli scritti vanno corretti dopo la terza prova, perché al ministero si è temuto che la formulazione delle domande del cosiddetto quizzone o questionario (sono scelte dalla commissione), fosse influenzata dall’esito dei primo due scritti. Poi l’esito delle prove deve essere pubblicato 24 ore prima dell’inizio degli orali, per non fare favoritismi. Visto che ogni commissione esamina due classi, l’ordinanza ministeriale impone di comunicare gli esiti separati il giorno prima dell’inizio del colloquio, mentre gli scritti sono stati corretti tutti insieme. La sezione A vede i punteggi un giorno prima dell’inizio, la sezione B, invece, dopo alcuni giorni al termine di quelli della A e a 24 ore dall’inizio. Alcuni hanno ribattuto che in tal modo i primi esaminati di ogni classe sono sfavoriti rispetto agli ultimi. E’ probabilmente pronta un’altra norma dei burocrati di viale Trastevere: gli esiti saranno comunicati giorno per giorno. Norme su norme, questa è la logica. Bizantinismi che dimostrano come la garanzia sia data solo dal centralismo ministeriale, mentre i commissari e presidenti non contano nulla, sono solo esecutori di dispacci dettati dall’alto. Poveri professori, trasformati in ragionieri e impiegati!
La dittatura dell’uniformità, dell’imparzialità, l’ossessione della valutazione oggettiva, sempre più spersonalizzata e astratta, domina oramai in tutti i meandri della scuola italiana, grazie alle griglie di valutazione. Così si valutano gli scritti e le prove orali. Poi sono presi in esame, grazie a parametri standard, anche le unità di apprendimento e i moduli didattici. Comprensione del testo adeguata, capacità di rielaborazione sufficiente, argomentazione disorganica, abilità nel calcolo ottima e morfologia e sintassi inadeguata, solo per fare qualche esempio. Insomma ce ne sono di tutti i tipi, con valutazioni in decimi in quindicesimi, con pesi e senza pesi, con descrittori e indicatori, che spaccano il capello in quattro come il bisturi di un chirurgo. E’ sufficiente navigare sul web per rendersene conto.
All’esame di Stato la griglia è questione di vita o di morte, è il moloch ai cui sacrificare tutto, perché il vero fattore inconfessabile per presidenti è commissari è la paura del ricorso, che le famiglie affidano ad avvocati sempre più agguerriti. Oggi bisogna dimostrare i motivi di una certa valutazione, altrimenti il Tar condanna. Non c’è poi presidente o commissario che non pensi con orrore di finire sui giornali, perché è noto come un solo diplomato mancato faccia notizia, immaginarsi due o tre nella stessa commissione.
Se dunque la percentuali dei diplomati si aggira sul 99 per cento, l’esame si restringe a una mera questione del voto finale. Un meccanismo colossale che in realtà inizia in terza superiore, che coinvolge 500mila studenti ogni anno, esaminati da oltre 12mila commissioni con relativi presidenti, in cui sono coinvolti più di 70mila docenti e una spesa complessiva valutata da una sito studentesco in circa 80 milioni di euro, per una sola questione di voto? Follia pura, visto che la vera selezione viene condotta dagli scrutini di ammissione che in genere si aggira sul 4,5 per cento annuo. Ma sono folli in Inghilterra, Irlanda, Spagna, Polonia e Germania? Certamente no. Oltralpe non fanno però sacrifici “umani” al valore legale del titolo di studio.