Adesso che il fragore della macchina elettorale si è spento, una domanda rimane a farci compagnia e a svelare “i pensieri segreti del nostro cuore”: che cosa abbiamo imparato, tutti, da questa esperienza e da questi giorni? Il più grande sintomo di anestesia totale della coscienza che si manifesta nella nostra vita quotidiana è che la realtà — quello che succede — sovente non ci interessa e non ci cambia. Dal punto di vista educativo tutto questo porta a conseguenze drammatiche: educare è diventato, soprattutto nel mondo cattolico italiano, un “portar fuori” il giovane dalla realtà per fargli capire — dall’esterno dell’esperienza — come stanno le cose. Così nascono incontri, giornate, momenti che niente hanno a che fare con la vita, che non aiutano a vivere davvero il tempo presente, ma lo eludono in nome di una bellezza sentimentale, una bellezza che “non tiene”. 



Con questa preoccupazione, anzitutto per me, sono entrato all’inizio di maggio nella mia quarta e nelle mie quinte del liceo dove insegno, ponendo loro la domanda su che cosa c’era davanti a loro, nella vita concreta, ad attenderli, a provocarli. Fra le tante cose che dicevano nessuno ha parlato di elezioni, come se votare fosse un qualcosa al di là della realtà. Quando ho accennato al fatto che tutti i maggiorenni il 31 di maggio avrebbero votato sono stato guardato come un alieno e ho dovuto chiedermi — e chiedere loro — che cosa significasse votare. 



Ho raccontato loro la storia di Luciano Tondelli, un diciottenne di Correggio arruolatosi nel 1944 fra i partigiani perché il suo popolo fosse libero e smettesse di odiarsi. Tondelli fu ucciso il 15 aprile del 1945 a diciannove anni e Ligabue — vedendo nel suo paese natio la lapide a lui dedicata — ha composto una canzone che parla di libertà, di “dare la vita”, di senso e di significato. I “Campi in Aprile” — questo il titolo del brano — ha fatto sprofondare le classi in un silenzio pieno di commozione e mi ha dato l’occasione per dire loro che votare è un dono che abbiamo ricevuto tutti, un dono che — anzitutto — è un’obbedienza, un gesto di carità. 



Infatti, una volta ogni cinque anni, ci viene chiesto di guardarci attorno e di indicare un nome, un partito o uno schieramento che per noi — in quel preciso frangente storico — ci sembra più significativo per il bene di tutti. Votare non è tanto scegliere, quanto obbedire a quello che riconosciamo come più giusto e più adeguato per i problemi del nostro comune, della nostra regione o del nostro paese. Guardare al voto così ha spiazzato tutti e fra i ragazzi la domanda si è fatta più radicale e più profonda: ma come faccio io a capire chi è meglio? Ne sono in grado? Da dove prendo il criterio per giudicare una cosa del genere?

Ancora una volta il dialogo si è spostato sulla realtà, sui suoi bisogni, su quello che ciascuno sapeva riconoscere come più urgente per la nostra Liguria. Il dibattito si è allora infiammato, gli interventi si sono moltiplicati e — in mezz’oretta — sono comparse sulla lavagna le istanze dei ragazzi. Ma la cosa non è finita lì e la sfida si è fatta ancora più interessante: in una società il mio bisogno deve convivere col tuo e deve essere compatibile con quello degli altri. Quanto costa, allora, fare le cose che avete detto? Da dove prendiamo i soldi? Il qualunquismo con cui normalmente gli adulti guardano alla politica si è sciolto come neve al sole negli occhi di questi ragazzi per cui “governare” è diventato — tutto ad un tratto — una cosa seria. 

Abbiamo così confrontato costi, spese, entrate e abbiamo raggiunto un accordo su tre proposte. “Perché non le scriviamo?” dicono dall’ultimo banco. “E perché non le mettiamo su internet?” fanno eco dalla prima fila. E così, classe dopo classe, ora dopo ora, i ragazzi stendono un volantino. Lo compongono loro, lo correggono, lo limano e poi via su internet. Il lavoro sembra fatto, ma uno ad un certo punti mi parla di un lutto recente, del fatto che “nessun politico può riportare indietro una persona dai morti”. “La politica non salva la vita” chiosa una compagna. E allora tutti di nuovo a riscrivere, a ripostare, a dire con chiarezza che quello che a loro interessa non è un partito o un’idea, ma la possibilità che si cela dietro la realtà.

Il giorno dopo alcuni candidati alla Regione mettono “mi piace” al volantino: è fresco, semplice, forse ingenuo, ma è tutto loro. Ed è questa la novità: i giornali locali se ne accorgono e ci telefonano: “Che cosa succede in quella scuola?”. C’è un momento — dice Montale — in cui il mondo sembra cedere e accorgersi di qualcos’altro, del fatto che in una regione in cui l’astensione ha toccato il 50 per cento qualcuno si è mosso non per fare politica, ma per prendere sul serio sé, per non sprecare un’occasione semplicissima di dire “Io”. Eppure a farlo sono stati proprio i ragazzi, quelli “in crisi”, quelli su cui nessuno scommette un centesimo e che non guardano mai oltre se stessi. Forse tutto questo non è vero. Forse abbiamo solo bisogno di riprendere fiducia, noi adulti, nei confronti della realtà e del loro cuore. E avere così l’ardito, ma nobile coraggio, di assecondarli, di seguirli. Senza inventare nulla, senza tirarli fuori dalla vita con “gesti ripetuti e fittizi”, illudendoci magari di essere noi ad educarli. Senza capire, invece, che chi fa crescere è sempre un Altro. 

Uno che non dobbiamo inventare o produrre noi, Uno a cui dobbiamo semplicemente permettere di incontrare il nostro cuore e quello di coloro che ci sono affidati. Senza cambiare tema o metterci a riflettere, ma banalmente dando la possibilità a ciascuno di imbattersi concretamente non nella nostra ideologia o nei nostri sentimenti verso la vita, ma — al contrario — nelle cose reali.

È questa, in fondo, la politica, è questa l’educazione, è questa la sfida per ogni cuore che desidera svegliarsi sul serio ogni mattino. Che desidera tornare a vivere ogni singolo istante ed essere così, tra le vicende del mondo, un punto di autenticità nella storia, un punto di vita per chi ha sete e cerca, dentro tutto — anche dentro il peccati —, un luogo dove ricominciare a respirare e a essere davvero “preso sul serio”.