Con il procedere del dibattito parlamentare, risulta sempre più affievolito l’afflato riformista del disegno di legge in materia di istruzione. Dalla mole di emendamenti presentati al Senato, molti anche da parte delle forze di maggioranza e dal Pd, è chiaro che il testo subirà ulteriori modifiche, che hanno tutti i presupposti per essere peggiorative.



Il testo di legge originario già presentava diverse occasioni perse, ma l’articolato così come è arrivato in discussione al Senato rappresenta già un notevole passo indietro rispetto ai proclamati obiettivi del presidente del Consiglio. Parole quali merito, carriera, valutazione, premialità, apertura al territorio e raccordo con le imprese che avevamo condiviso all’indomani del dibattito sulla Buona Scuola sembrano destinate a scomparire o, nella migliore delle ipotesi, ad uscirne indebolite, messe sotto tutela, snaturate dalla rivincita della cultura della partecipazione e della dimensione centralistica, frutto dei continui compromessi al ribasso raggiunti più al Nazareno che nelle Aule parlamentari di Montecitorio. 



Un primo e fondamentale punto di debolezza è il mancato sviluppo dell’autonomia scolastica, il primo grande assente della riforma Renzi. Non solo con riferimento al ruolo del dirigente, fortemente ridimensionato, ma anche relativamente alla mancata introduzione dell’autonomia statutaria che avrebbe riconosciuto alle scuole la potestà di definire le proprie regole di funzionamento, le migliori modalità organizzative, nei limiti dei principi generali fissati dalla legge e controbilanciate da una valutazione dei risultati raggiunti.

Il ruolo del dirigente scolastico, ad esempio, nel testo trasmesso al Senato risulta ridimensionato e commissariato dal comitato che dovrà affiancarlo nella selezione del personale dagli albi territoriali e nella successiva valutazione per la premialità. Insomma, il dirigente uscito dai lavori della Commissione Cultura della Camera rimane una figura estremamente fragile, che rischia di essere ulteriormente indebolita se dovessero essere approvati alcuni degli emendamenti presentati al Senato che arrivano ad ipotizzare l’eliminazione degli albi territoriali e della rappresentanza di genitori e studenti nell’istituendo comitato di valutazione. Al contrario, le proposte emendative dovrebbero rafforzare l’accountability delle scuole o reti di scuole tanto sul versante della chiamata diretta dei docenti idonei a realizzare i Pof degli istituti e delle reti, quanto sulla misurazione della qualità e dell’innovazione prodotte con le scelte effettuate di tipo didattico ordinamentale e/o di tipo strategico. Stretto da un lato dal corporativismo sindacale e dall’altro dall’autoreferenzialità ministeriale, il dirigente scolastico della “Buona Scuola” rischia di vedersi riconosciuti ancora meno degli attuali poteri, soprattutto se con un colpo di spugna il Senato dovesse cancellare le timide aperture previste finora.  



Se così fosse, si avrebbe la Nuova Scuola costruita su un riferimento anacronistico (la legge 59/1997 e il DPR 275/1999), superato ormai dai fatti, oltreché dal diverso assetto delle competenze dovuto alla riforma costituzionale del 2001 e da un modello (centralistico-burocratico) già archiviato da molte Regioni come la Regione Lombardia che da anni promuove governance territoriali di rete, aperte ai soggetti pubblici e privati della ricerca, della produzione e dell’economia realizzando una vera sussidiarietà orizzontale.

Ma il vero vulnus di tutta la proposta di riforma renziana resta la procedura prevista per l’immissione in ruolo dei docenti della Buona Scuola. Non è affatto chiara e rischia di penalizzare ancora una volta i più giovani e creare ulteriore precariato. Non è chiaro, infatti, quale sarà la sorte degli abilitati e quale sarà l’effetto di prevedere tre anni di contratto di apprendistato, per poi conseguire un diploma di specializzazione nel corso del primo anno, che presumibilmente dovrà sostituire l’abilitazione. Insomma: non solo manca la necessaria trasparenza per l’attuale piano assunzionale, ma anche sulle nuove modalità di immissione in ruolo. È evidente che oltre alle mediazioni, la norma sconta anche quella originaria premessa di voler stabilizzare tutti i precari. In tal modo, si rischia di depotenziare molto la procedura concorsuale del prossimo anno attraverso la riserva di posti: non potendo assumere tutti i precari, compreso quelli iscritti nelle graduatorie cosiddette di seconda fascia, si introducono ulteriori riserve di posti riducendo di fatto i posti dei prossimi concorsi con buona pace del merito e della qualità.

Un altro aspetto che non è stato per nulla valutato è la valorizzazione dei docenti attraverso il riconoscimento di uno specifico status giuridico.

Costruzione di carriera e premialità in base al merito attraverso la valutazione: questa sarebbe stata la strada da seguire per valorizzare i docenti. Non la dazione statale prevista dal ddl, con una card per gli insegnanti (anche per spettacoli teatrali e cinematografici – sic!) e 200 milioni aggiuntivi per il merito (mance assegnate dai dirigenti ai docenti, non si sa bene per cosa…). 

Non si può poi tacere l’accanimento contro le scuole paritarie. La norma che prevede la detrazione delle spese sostenute per la frequenza di scuole paritarie, con un tetto massimo di 400 euro all’anno, che corrisponderebbero a poco meno di 80 euro a famiglia, è stata osteggiata fin dal primo momento con motivazioni di carattere squisitamente ideologico, e sembra destinata a sparire dal ddl o quanto meno ad essere ridimensionata escludendo dall’ambito di applicazione della norma le scuole secondarie superiori. In tal caso, ci sarebbe in ogni caso poco da gioire; sarebbe l’ulteriore conferma che si tratta di pura ideologia legata alla credenza che le scuole paritarie secondarie di secondo grado siano sostanzialmente dei diplomifici.

Fa eccezione nella valutazione del provvedimento di legge il rafforzamento dell’alternanza scuola-lavoro negli istituti tecnici, professionali e nei licei, che consolida il raccordo con il mondo del lavoro, tanto più opportuno ora che la disoccupazione giovanile raggiunge percentuali da capogiro. Non appare tuttavia una scelta lungimirante lasciare fuori dal progetto di riforma l’Istruzione e Formazione Professionale, che viene solo marginalmente citata ed a cui non vengono destinate risorse aggiuntive. 

Dalle aperture del premier Renzi alle modifiche del ddl, insomma, dobbiamo aspettarci solo scelte peggiorative rispetto ai canoni innovativi e liberali. L’unica speranza è che le forze di opposizione facciano sentire la propria voce a favore di una scuola realmente autonoma, moderna e pluralista, guardando ai migliori modelli regionali (come quello della Lombardia), europei ed internazionali, ma soprattutto guardando avanti e non indietro.