PARIGI — Da qualche mese la società francese è in ebollizione, a causa della riforma che riguarda la scuola media e in parte quella elementare. È sorprendente che fin dall’epilogo, gli intellettuali soprattutto di “sinistra” abbiano condannato senza mezze misure una riforma che considerano come la “trasformazione dello studente in cliente il quale sceglierebbe i prodotti culturali come in un supermarket dell’educazione” (Régis Debray, France Inter). Alain Finkielkraut ha aperto un’intervista a Le Figaro (12 maggio 2015) dando subito il titolo: “La riforma della scuola media non è progressista, è distruttrice”. 



Non sono personaggi minori, quelli che prendevano apertamente posizione. Per la cronaca va detto che, secondo una collaudata consuetudine, il governo del primo ministro Valls ha portato in Parlamento la legge, svolto un dibattito e, vedendo che le “cose si mettevano male”, prima del voto finale, nella notte (il dettaglio non è casuale) ha promulgato un decreto legge e buona notte ai detrattori. 



Non è un episodio inedito di una novella di Collodi. È la Francia di oggi, dove uguaglianza e libertà sono di casa e imperano in ogni parte della società, salvo nell’agire del governo. Infatti è paradossale che proprio per una maggiore uguaglianza nella scuola, volendo abbattere tutte le meritocrazie possibili il dogma che vige da Condorcet ai giorni nostri si trasformi nel suo opposto. 

Condorcet, nel suo testo Sur la nécessité de l’Instruction publique (Sulla necessità di un’istruzione pubblica) prevedeva che attraverso un’istruzione elementare, saper scrivere e contare, ogni individuo potesse avere in seguito l’opportunità di allargare il suo “sapere”. È appunto a questo livello che la riforma irrita le anime belle della sinistra. In particolare, perché viene abolita la possibilità di studiare il latino e il greco come materie opzionali. Stiamo parlando di numeri infinitesimali. Tuttavia, simbolicamente, si teme — a giusto titolo — che “siano messe in discussione (ancora di più) l’autorità del maestro che gli deriva dal sapere (…) fondata sul lavoro e sullo sforzo” (R. Debray). 



La scuola è diventata il luogo di scontro dell’ideologia “dell’uguaglianza a tutti i costi”. Si pensa, “in alto”, che sia il luogo dove si può inculcare l’uguaglianza abbassando il livello “meritocratico” e quindi discriminatorio del sapere. Per questo oltre, alle materie già citate, saranno eliminate le classi bi-lingue, dove era possibile insegnare una materia in un lingua straniera e avere più ore di lezione in questa lingua. 

Per attuare questa trasformazione del sistema occorre una pedagogia adeguata. Sarebbe complesso dettagliare l’ottantina di pagine consacrate all’argomento. Possiamo ritenere qualche perla. Ad esempio, l’insegnamento del nuoto in piscina viene definito “attraversare l’acqua in equilibrio orizzontale attraverso l’immersione prolungata della testa… in un ambiente acquatico profondo standardizzato”. Vi assicuro che non è una barzelletta, è la verità. Questo linguaggio avulso da ogni realtà si aggiunge a una riforma dei programmi in cui si prevede per esempio che lo studio dell’islam sia obbligatorio mentre il cristianesimo e “les lumières” saranno insegnati come facoltativi. 

Tutta questa serie di cambiamenti inquietano perché oltre a non rispondere ai veri problemi ne creano ulteriori. Un aspetto tra tutti ci sembra problematico. Nella riforma s’insiste perché l’insegnamento nozionistico sia fatto tramite materie interdisciplinari. La proposta è interessante da un punto di vista didattico? Ma allora, perché c’ è bisogno di farne una legge? Che cosa può giustificare l’obbligo legale d’insegnare in un certo modo? Se tutto l’apprendimento è basato sulla libertà di chi insegna e di chi impara, che senso ha costringere con una legge questa libertà?