In un recente intervento il Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco ha sostenuto che le imprese italiane pagano i laureati poco più dei diplomati, e comunque poco in assoluto, imputando questo fatto alla miopia delle imprese stesse, incapaci di misurare e apprezzare la qualità, e sottolineando come ciò disincentivi l’investimento formativo e quindi, alla lunga, la crescita potenziale dell’economia. Tutto vero, ma è importante chiedersi perché ciò sia avvenuto.



Innanzitutto ci si deve chiedere a quali laureati il Governatore facesse riferimento, se a quelli con laurea triennale, che sono il 60%, a quelli con laurea magistrale (altri due anni dopo la laurea triennale), un altro 30%, o infine ai pochi laureati di un corso a ciclo unico, di cinque o sei anni (veterinaria, architettura, chimico-farmaceutico, giuridico, medicina), poco più del 10% del  totale: nel fare il conto dei laureati, i laureati con laurea magistrale vengono contati due volte, la prima dopo la laurea triennale e la seconda dopo il biennio. Si può quindi parlare di due grandi gruppi di laureati, quelli dei corsi triennali e quelli dei corsi “lunghi”, tra i quali vi sono certamente differenze di retribuzione, ma non tali da inficiare l’assunto fondamentale, né l’analisi che segue: secondo l’indagine AlmaLaurea, con riferimento ai laureati del 2011, un anno dopo il conseguimento della laurea quelli che lavoravano percepivano 942 euro mensili se in possesso di una laurea triennale, 1.053 euro se in possesso di un titolo dei corsi “lunghi”, specialistici o a ciclo unico, con una differenza  di 111 euro: non certo una cifra sconvolgente.

Crediamo perciò che il discorso del Governatore possa essere applicato all’insieme dei laureati, quanto meno per quella che è la retribuzione “di ingresso”, con riferimento a quella “generazione mille euro” di cui racconta un omonimo film del 2009.

A mio parere, le origini di questa situazione vanno cercate nel passato, a partire dalla riforma del 2000, che trasformava l’università con l’intento dichiarato di colmare il divario negativo con gli altri paesi industrializzati per la quota di popolazione in possesso di un titolo universitario. Purtroppo, la riforma non è riuscita a ridurre l’autoreferenzialità del mondo accademico, spacciata per autonomia, ed ha riproposto le illusioni ataviche per cui l’egualitarismo deve valere anche in materia di capacità (e volontà) intellettuali e la certezza, non dimostrata, che sia sempre possibile coniugare quantità e qualità. 

Quest’ultimo aspetto è forse il più importante. Fino al decennio scorso uscivano ogni anno dagli atenei italiani circa 140-150mila fra laureati e diplomati universitari; con la riforma dell’ordinamento universitario, nel decennio 2001-2010 si sono laureati oltre 2,6 milioni di persone, pari, in media, a circa 260mila all’anno, con un picco superiore alle 300mila unità nel triennio 2005-2007, picco dovuto ai molteplici incentivi e “passerelle” di passaggio dai “vecchi” ai “nuovi” corsi, per facilitare l’uscita dei fuori corso; calcolando una sola volta i laureati dei corsi specialistici, i laureati “netti” sono stati oltre 2,3 milioni, e la media annua  di quasi 237mila ha superato di oltre il 57% quella del quadriennio 1997-2000 (poco più di 148mila). 

Nella seconda metà del decennio il numero dei laureati è progressivamente diminuito, fino a stabilizzarsi intorno alle 210mila unità (pur sempre circa il 40% in più rispetto agli ultimi anni del decennio precedente); il numero è destinato ad abbassarsi nel prossimo futuro, per effetto del recente calo delle immatricolazioni, su cui ha ovviamente inciso, dalla crisi del 2008 in poi, anche la diminuita capacità delle famiglie di sostenere oneri di studio e di mantenimento. E già si comincia a chiedersi se in un futuro non lontano i laureati in ingresso sul mercato del lavoro non cominceranno a scarseggiare.

Il divario con gli altri paesi industrializzati è stato effettivamente ridotto: in un contesto di sostanziale stabilità demografica, grazie all’apporto della componente migratoria che ha compensato il calo degli italiani, la popolazione con almeno 15 anni di età in possesso di un titolo universitario è passata in dieci anni da poco più di 4 milioni di persone a quasi 6,3 milioni (circa 210mila in più all’anno), passando dall’8,5 al 12,1% del totale. A fronte di questo aumento, i laureati presenti sul mercato del lavoro sono cresciuti al ritmo di più di 100mila l’anno, passando da 2,9 a 3,9 milioni e dal 14,5 al 20,7% del totale; nello stesso decennio, i laureati occupati sono saliti da 3,1 a quasi 4,3 milioni (+120mila all’anno), e dal 14 al 19,4% degli occupati. Sono ovviamente cresciuti anche i laureati disoccupati, ma il relativo tasso di disoccupazione, salito dal 5,8 al 7,9%, è aumentato soli 2,1 punti, mentre per l’insieme delle forze di lavoro l’aumento è stato di oltre 5 punti, dall’8,8 al 13,9%.

Due quindi le considerazioni che questi dati suggeriscono: innanzitutto che il sistema economico ha assorbito quasi interamente l’offerta aggiuntiva di popolazione laureata, e in secondo luogo, che questa è stata penalizzata dalla crisi in misura inferiore rispetto alle altre componenti dell’offerta di lavoro. Conseguire una laurea quindi ancora “paga”, quanto meno in termini di possibilità di accesso al mondo del lavoro.

Mi chiedo però, a questo punto, quale sia la qualità di questi laureati: non che quelli pre-riforma brillassero tutti, anzi, ma è opinione diffusa che la riforma abbia contribuito ad abbassare il livello qualitativo medio dei laureati. I corsi triennali infatti sono molto diversi nell’impostazione non solo dai precedenti corsi quadriennali, ma anche dai corsi di diploma universitario triennale esistenti prima della riforma: corsi molto professionalizzanti, spesso concordati a livello locale con le rappresentanze di imprese e mondo del lavoro, e capaci di offrire sbocchi lavorativi pressoché immediati. Corsi poco applicativi, dunque, e conclusi da una tesi di laurea ridotta a poco più di un compitino scritto, spesso sintesi di testi trovati su internet, che per lo più non richiede se non uno scarso impegno personale.

Non meraviglia che le imprese, come molte ricerche hanno documentato, considerino i laureati triennali come poco più che diplomati, e ritengano di retribuirli più o meno allo stesso modo, anche a prescindere dai favorevoli rapporti di forza tra domanda e offerta che oggi vi sono. E del resto questa generazione di laureati, che pure è in larga misura occupata, svolge in effetti un “lavoro da diplomati”, per cui basta la preparazione offerta da un istituto medio superiore appena decente. 

E allora, perché pagarli di più? Tutto ciò non toglie, fortunatamente, che una quota di laureati italiani, per lo più di laurea lunga, possa essere considerata di eccellenza assoluta, non certo in base al numero di “110 e lode” prodigalmente e non uniformemente assegnati, ma per la loro effettiva qualificazione, per cui le maggiori imprese se li disputano, o che preferiscono trovare un impiego all’estero, “esportando” i vantaggi del costo della loro formazione sopportato dalla collettività nazionale.

Ma la domanda da porsi è un’altra: nello scorso decennio esisteva in Italia, con la sua struttura economica, per settori e tipo di imprese presenti, un milione e 200mila posti di lavoro “da laureato”? O non ci si è piuttosto illusi che l’offerta stimolasse la domanda e creasse magicamente dei posti che non esistevano? Se le cose stavano così, e i dati paiono confermarlo, la svalutazione del titolo di studio, la quasi equiparazione retributiva tra laureati e diplomati, la demotivazione a investire in formazione, sono una conseguenza quasi inevitabile, che ha creato un pesante divario tra le aspettative connesse al raggiungimento del “pezzo di carta”, con i sacrifici personali e familiari che lo hanno reso possibile, e le concrete opportunità di lavoro che il sistema economico era in grado di offrire. Detta brutalmente: “Sarai pure laureato, ma quello che c’è è un posto al call center; prendere o lasciare”.

Un’impostazione, quella della riforma dell’ordinamento, che ha avuto, almeno in apparenza, il compito di colmare le lacune della scuola media superiore, demandando la funzione propria dell’università, vale a dire selezionare e formare la classe dirigente di un paese, alla possibilità — questa sì molto classista — di frequentare atenei privati (dove in media la durata degli studi è inferiore di un anno a quella degli atenei pubblici) o corsi di studio post-laurea, magari all’estero; e non è riuscita a dare un impulso alla mobilità sociale, spacciando come “diritto” l’iscrizione in massa all’università (lo fanno oltre due terzi dei diplomati), tanto, per i lavori di livello inferiore, ci sono gli stranieri.

Lo scadimento del “prodotto” delle università non è però imputabile solo alla riforma, o alla carenza di risorse economiche, di spazi adeguati, di tecnologie, ma va cercato prima di tutto nella qualità del personale docente. Chi è in cattedra oggi? Un docente che nel 2005 aveva 50 anni, quindi al meglio del proprio percorso professionale, si è laureato più o meno nel 1980 e ha studiato negli anni 70. Ma ce la ricordiamo — lo dico a chi ha una certa età — com’era l’università in quegli anni, pervasa da spinte utopistico-rivoluzionarie, impregnata di un assurdo egualitarismo, che trovava la sua massima espressione nel “voto minimo garantito”, l’università dei “trenta, trenta!” (come cantava Gaber), nella quale anche i migliori docenti soccombevano alle intimidazioni, non avendo, né dovendo avere, la tempra degli eroi o dei martiri? 

Senza voler fare di ogni erba un fascio, riflettiamo sul fatto che molti laureati di quella stagione sono finiti in cattedra, nelle scuole e nelle università. E qualcuno si meraviglia dello scadimento, in questo paese, della classe dirigente nelle imprese e nella politica, per non parlare della scuola e delle altre istituzioni pubbliche?

A questa eredità si è aggiunta, aggravata dalla riforma, l’autoreferenzialità del mondo accademico, che ha portato alla moltiplicazione e alla parcellizzazione dei corsi, alcuni con un numero di studenti che si potevano contare sulle dita di una sola mano, all’aumento delle facoltà (e dei relativi presidi), alla frammentazione delle sedi territoriali distaccate e decentrate, che ha certamente avvicinato l’università al territorio, ma che altrettanto certamente non ha portato in queste sedi i docenti migliori. Insomma, è come aver deciso di far scegliere il percorso degli autobus agli autisti, e dopo non ci può certo meravigliare se tutti hanno scelto un percorso che, guarda caso, li porta direttamente a passare davanti al portone di casa. Per il quieto vivere, si è spesso accettata la subalternità degli utenti rispetti ai produttori del servizio!

Certo, i laureati sono pagati poco oggi, in Italia, ma è forse inevitabile che sia così, finché la scuola media superiore non ritroverà dignità, e il livello qualitativo dei laureati non si alzerà. Forse basterebbe, per l’università, avere il coraggio di alzare le tasse universitarie, che pur tra molte difficoltà, ha avuto Tony Blair con la riforma del 2006: non per “fare cassa” ma con una “operazione a somma zero”,  che destinasse ogni euro di entrate in più a borse di studio; allora forse anche la mobilità sociale potrebbe essere una possibilità, e non una illusoria promessa.