Avevamo riposto speranze nel testo iniziale del governo sulla Buona Scuola. C’erano significativi tentativi di novità. Nel merito e nel linguaggio. Si sdoganavano pratiche, idee e parole simbolo di matrice liberale che la sinistra ideologica italiana aveva sempre aborrito per principio, etichettandole “di destra”. Pratica normale in un paese normale, per la verità. Soprattutto in tema di educazione e di futuro delle nuove generazioni. Come accade regolarmente in Usa, Spagna, Inghilterra, Olanda, Germania, perfino nella cugina Francia. 



Con il testo iniziale del governo, se non si cambiava il paradigma strutturale del nostro sistema educativo, si introducevano, tuttavia, leve strategiche che ne avrebbero innovato nel medio periodo la fisionomia. Perfino il reclutamento poteva essere ipotizzato diverso da come finora l’abbiamo conosciuto. 

Poi è cominciata la risacca. La ritrattazione dei contenuti più rilevanti è avvenuta ad ogni passaggio dalle decisioni prese al Nazareno dal Pd, poi passate in commissione e in aula. Il risultato finale è sotto gli occhi di chiunque guardi le cose con un minimo di obiettività. L’unico vero risultato di questa navetta del disegno di legge, ora legge della Repubblica, tra il luogo extraparlamentare del Nazareno e il luogo istituzionale delle Camere è tutto interno al Pd. Qui la maggioranza renziana ha neutralizzato e reso ininfluente la minoranza che voleva far perdere alla norma anche quel poco di novità che è rimasta. Ma il prezzo è stato un testo che, ora, si limita a guardare al passato e addirittura a fingere come novità travolgenti il finanziamento di norme già esistenti da decenni. Come se fosse questo che serve per attrezzare le nuove generazioni ad affrontare le sfide epocali che le attendono. 



La questione reclutamento dei docenti è emblematica. Non cambia. Nessuna novità. Restano i concorsi centralizzati fatti nel modo che abbiamo conosciuto. Speriamo almeno che d’ora innanzi siano davvero costanti. Inoltre, in continuità con la più collaudata tradizione del secolo scorso, li si condiziona all’ennesima sanatoria, che non solo non risolve il problema del precariato (che, anzi, continuerà a proliferare stante l’attuale organizzazione del sistema), ma crea nuove e inique disparità tra precari “salvati” o “dannati”, costretti per forza di cose alla logica dei capponi di Renzo. 



Non meno significativa la distanza tra propositi e metodi. I primi restano tutti condivisibili. Chi non vuole una scuola migliore, in grado di confrontarsi degnamente con le nuove tecnologie della comunicazione, l’alternanza scuola-lavoro, la flessibilità dei piani di studio, la sfida del merito, l’autonomia? Il problema è che per concretizzare questi propositi si accentuano due strategie che hanno già  ampiamente dimostrato la loro fallimentare inefficacia. 

La prima è, al di là delle parole, la centralizzazione amministrativa di tutti processi che contano. Tutto deve passare da Roma, dagli organici ai concorsi, alle discipline che possono essere opzionali e facoltative, al reclutamento, perfino a ciò che rimane del merito e della valutazione, visto che quella esterna, nelle attuali condizioni di carenza di ispettori e di difficoltà operative dell’Invalsi, rischia di restare al palo e di lasciare il campo alle solite autoassoluzioni. La stessa autonomia delle scuole è, in questo contesto, alla faccia del concetto costituzionale di autonomia, ridotta a qualche filantropico spazio di libertà. 

La seconda è il rilancio di un partecipazionismo da anni settanta del secolo scorso. Che significa tutti responsabili, nessun vero responsabile. Da questo punto di vista risulta paradigmatica la battaglia perduta per una dirigenza scolastica davvero dirigenziale e, soprattutto, per una governance locale più forte e consapevole, diversa dagli organi collegiali del 1974. 

Non si può negare, tuttavia, che la valorizzazione dell’apprendistato formativo, l’obbligo delle 400 ore di alternanza scuola-lavoro nei tecnici e nei professionali e delle 200 ore nei licei siano aspetti molto positivi. Ma anche questi rischiano di risultare anestetizzati nel loro valore innovativo proprio perché innestati in un sistema che non solo non cambia gli ordinamenti, ma peggiora la formazione iniziale dei docenti inventando una specie di parallelismo congiunturale tra quella pedagogico-metodologica e quella disciplinare. Come potranno imparare i docenti futuri ad insegnare tutte le discipline a partire da, con e attraverso il lavoro e le situazioni reali, se avranno avuto esperienza di una formazione universitaria che divide programmaticamente le due cose? 

Questo non toglie che occorra fare ogni sforzo perché almeno questi temi ricevano tutte le attenzioni e i sostegni che meritano. I decreti del Jobs Act permettono, ad esempio, la costituzione anche nel nostro paese del cosiddetto sistema duale: acquisire titoli di studio sia in scuole nelle quali si incontra comunque l’alternanza scuola-lavoro, sia attraverso l’apprendistato di primo e di terzo livello. In Regione Lombardia è in dirittura d’arrivo una mia proposta di legge che obbliga, per esempio, tra le altre cose, tutta l’Iefp regionale ad assicurare almeno il 5% dei propri percorsi formativi in apprendistato per la qualifica e il diploma. Su questa linea sarebbe bene lavorare anche a livello nazionale. 

Certo come Lombardia non possiamo che guardare che con disarmante rammarico alla deflagrazione di due negatività. La prima determinata dall’immissione in ruolo dei precari immaginata dalla legge. Avremo sul territorio molti docenti che, provenendo da altre regioni, scalzeranno altrettanti colleghi che conoscono ormai da anni le peculiarità del sistema lombardo e che hanno già instaurato con il territorio quei collegamenti che sono indispensabili per dare gambe all’alternanza e all’apprendistato.

La seconda è l’ennesima dimostrazione di totale inefficienza dell’amministrazione centrale che è riuscita a farsi cassare per la seconda volta dal Tar il concorso per dirigenti scolastici svolto in Lombardia. Con il risultato che al posto di dirigenti selezionati con ben due concorsi, si potrebbe rischiare di avere le solite reggenze, mentre la scuola lombarda ha invece bisogno del ruolo propulsivo di questi dirigenti motivati e competenti cresciuti sul territorio.