Evitando diatribe ormai logore su quanto senso abbia ancora l’esame di Stato dell’era Berlinguer, mi soffermerò sulla mia recente esperienza di commissaria interna di italiano in un liceo scientifico del Nordest, che mi ha confermato la perversa tendenza di quell’esame a trattare l’insegnante di lettere come un tuttologo di professione. 



Così, in una serie di mattinate di inizio luglio ho ascoltato i colleghi di matematica, filosofia, scienze e di altre discipline impostare il colloquio coi maturandi a partire dalle prove scritte. Io invece ho potuto impostarlo, quando andava bene, solo a partire dalla tesina dello studente, perché se avessi iniziato dallo scritto avrei dovuto sostenere improbabili dialoghi su cellulari, whatsapp e sociologi di grido, dato il successo riscosso quest’anno dal saggio di ambito tecnico-scientifico su connettività e comunicazione: temi che posso aver affrontato in classe, ma solo a partire dalla disciplina che insegno perché tuttologa grazie al cielo non sono. 



Infatti, al termine di un percorso che in particolare nei licei vede il docente affrontare la letteratura italiana nei suoi poliedrici collegamenti con la cultura europea, il ministero dell’Istruzione non sa far di meglio che offrire ai maturandi un profluvio di tracce d’esame, tra le quali emerge il saggio breve sui cosiddetti argomenti di attualità quale facile scorciatoia che bravi e meno bravi tendono a imboccare per ottenere il massimo risultato col minimo sforzo. Non di rado ci si trova quindi davanti a un testo dal contenuto superficiale e generico, nei casi peggiori una sorta di scopiazzatura dei testi proposti. Con quali conseguenze rispetto all’obiettivo di valutare adeguatamente forma e contenuto, lo si può immaginare. 



Se poi qualcuno mi obietta che la prima prova deve restare anzitutto una prova di cultura generale, mi spieghi allora perché a occuparsi di ciò debba essere necessariamente chi insegna letteratura italiana; e perché non sia meglio, almeno nei licei, valutare uno scritto di italiano anziché vaghe elucubrazioni sulla cosiddetta attualità, a partire da argomenti che, complice il caso, spesso premiano chi ha studiato di meno.  

Evidentemente nessuno vuole negare il valore dell’interdisciplinarietà e delle competenze, che certo rappresentano un approdo necessario, ma a partire da una coerente organizzazione dello scibile; e nemmeno l’intrinseca validità del saggio breve quale prova d’esame. Mi limito a sottolineare il gran numero degli argomenti proposti, per i quali proporrei al ministero una drastica sforbiciata lasciando l’analisi del testo letterario, un saggio breve di italiano e un tema di italiano, grazie ai quali lo scritto finale torni finalmente a rappresentare la cartina di tornasole di un pluriennale studio della disciplina. 

A proposito di analisi del testo, mesi fa in viale Trastevere se ne ipotizzava la soppressione. Correva voce che la sua imperdonabile colpa fosse quella di “favorire” gli studenti dei licei rispetto agli altri. E qui affronto la seconda questione inscindibile dalla prima: il veleno che un’arcaica demagogia dell’eguaglianza a ogni costo continua a inoculare nel nostro sistema d’istruzione.

Com’è noto, le tracce valgono per ogni ordine: liceale, tecnico, professionale e in proposito, su questo sito, qualche tempo fa il dirigente scolastico Ezio Delfino osservò come la prova d’italiano non tenesse alcun conto della diversità dei percorsi. Aggiungerei che questi andrebbero ulteriormente differenziati per il bene non solo degli studenti ma della società tutta, cui verrebbe finalmente restituita la cognizione di itinerari formativi con diverse finalità e soprattutto con pari dignità. 

Al contrario, c’è chi prospetta l’abolizione del liceo classico per copiare le “prime della classe” Francia e Germania o, all’opposto, la moltiplicazione delle ore di musica, arte, diritto, economia e discipline motorie scarsamente collegate, che io sappia, a specifici indirizzi di studi. 

Per ora null’altro vedo all’orizzonte che una scuola massificata, delizia di un’Europa di tecnocrati, e il trionfo del docente di lettere-tuttologo antitetico al modello di Luperini (Insegnare la letteratura oggi, Manni, Lecce 2013): “l’insegnante non sarà né solo un tecnico specializzato che offre competenze, né un tuttologo chiamato a insegnare, oltre alla letteratura, la storia del cinema e del teatro e magari anche la sessuologia, ma un intellettuale che si interroga sul senso e sul valore dei testi e che ai giovani insegna a fare altrettanto”. Una boccata d’aria nel clima asfittico odierno, prefigurato dal Chesterton profetico di Eretici (1905): “Sarà una posizione ragionevole negare le pietre della strada; diventerà un dogma religioso riaffermarle … ci ritroveremo a difendere l’incredibile sensatezza della vita umana”. 

E’ dunque ragionevole anche chiedere che il docente preparato a insegnare letteratura italiana, proprio quella insegni: perché quella sarà apprezzata dalla parte migliore dei suoi studenti e dell’intero corpo sociale; quella aiuta a esercitare positivamente lo spirito critico; quella, in definitiva, ci salva dall’omologazione.