Che la riforma della scuola venisse approvata con il sì scontato della Camera, era cosa chiara e ampiamente prevedibile; altrettanto chiara l’inutilità di chiedere un’anima a un’iniziativa sorta per sanare la situazione del precariato stigmatizzata dall’Europa, per raccogliere consenso politico e sociale e magari — beneficio del dubbio — anche per dare una scossa al mondo della scuola stessa.  Questa ha due scopi formali, che non le danno un’anima: formare alla cittadinanza (per il potere politico) o all’imprenditorialità (per l’economia), con esiti pessimi se si considera la diffusa  disaffezione alla politica e i dati dell’economia reale e dell’occupazione. Nicchie di difesa del suo valore formativo della persona (prima che del cittadino o dell’imprenditore) sono cosa trascurabile. La persona non è una categoria sociologica, dopotutto.



La riforma della Buona Scuola di Renzi, se mai ha avuto l’intento di dare un’anima alla scuola, quella dell’autonomia, l’ha sacrificata nel nome del conseguimento dell’obbiettivo principale; farsi approvare. E quel che ne è rimasto sono molti provvedimenti: piano assunzioni straordinario, organico dell’autonomia, finanziamento di 3 miliardi, piano dell’offerta formativa  triennale sostenuto dai fondi Miur e dalle nuove risorse umane che verranno assunte, più competenze linguistiche (leggasi inglese e Clil) con arte, musica, diritto, economia, discipline motorie e l’immancabile digital competence, curriculum personalizzabile dello studente alle superiori, apertura delle scuole ad attività non strettamente scolastiche, il nuovo ruolo del dirigente scolastico come “leader educativo” (niente preside sceriffo nel comunicato del Miur del 9 luglio), l’obbligo della formazione per i docenti e l’edilizia scolastica. C’è tutto o quasi.



Si è perso praticamente perso per strada il merito del docente; la chiamata individuale dei dirigenti scolastici dal 2016, su valutazione dei curricula dagli albi regionali, anche con colloqui, è il passo successivo al piano di assunzioni perché “è lo Stato, e non il dirigente scolastico, ad assumere“,recita, in grassetto, il comunicato del Miur. E tutto ciò è inevitabile in uno sistema ancora radicalmente centralista che si prende in carico altri 100mila docenti perché rispondono ai criteri del comma 96 del decreto (quelli del concorso del 2012 e gli iscritti nelle graduatorie a esaurimento). 



Chi è nella Schindler’s list è salvo, perché se nessun dirigente scolastico lo chiama, o per oculata valutazione o per colpevole inerzia e miopia, verrà collocato, pur nei limiti del comma 95. Magari non nella scuola dietro casa, magari non ad insegnare per la sua classe di concorso, magari a seguire l’alternanza scuola-lavoro, magari a tenere aperta la scuola anche d’estate, magari ad accettare condizioni nuove ed inusitate per una concezione della professione docente come la professione dove non si corrono rischi.

Con un rischio tuttavia non eliminabile: che tutte queste condizioni potenzialmente sovversive non siano sufficienti a determinare un cambiamento di mentalità del docente stesso se non adeguatamente sostenuta da due fattori essenziali; una retribuzione decorosa e una formazione del docente che sia totalmente disciplinare e totalmente imperniata sulla sua persona come valore, e non come risorsa. Questo, nella Buona Scuola appena approvata, non c’è.