L’istruzione classica è veramente in crisi e il liceo classico, vanto della nostra gloriosa tradizione che tutto il mondo ci invidia, la rispecchia in pieno. Mi ha colpito una notizia che forse può sembrare ai più curiosa e marginale, ma segna una spia luminosa del deragliamento su cui l’insegnamento del greco e del latino si è messo. Sul Corriere di martedì 14 luglio infatti leggiamo Corriere della Sera ci informa che nella cittadina di Domodossola, ultima stazione d’Italia prima che il treno varchi il confine elvetico, ci sono sette aspiranti liceali su una popolazione di quasi 20mila abitanti: il risultato è che l’anno prossimo Domodossola non aprirà, probabilmente, la classe prima del suo storico liceo classico. Pur di non far “morire” quella che un tempo si chiamava quarta ginnasio, anche i genitori si sono iscritti promettendo di seguire le lezioni, ma lo stratagemma poco è servito: i sette liceali o dovranno andare a Verbania percorrendo quaranta chilometri ad andata e altrettanti a ritorno, quasi una novella maratona in salsa nostrana, oppure dovranno iscriversi ad altri corsi di studio. Quello del liceo di Domodossola è solo un caso che non è isolato, ma si propaga purtroppo in tutto lo Stivale.
Scrive Gianna Fregonara: “Ma la domanda che le sette iscrizioni pongono è un’altra, e non riguarda solo Domodossola. Quale è oggi un curriculum degli studenti, quello cioè che bisogna studiare per essere buoni cittadini ma anche per immaginare la propria vita dentro il mercato del lavoro, adatto al mondo di oggi?”.
Naturalmente questa è una domanda fondamentale alla quale, proprio dalle pagine del sussidiario, docenti, intellettuali e professionisti non direttamente collegati al mondo della scuola e dell’educazione hanno tentato di fornire una risposta argomentata o convincente.
A mio avviso, tra i numerosi fattori che concorrono alla complessa e complessiva crisi dell’istruzione classica e del tangibilmente conseguente calo delle immatricolazioni al liceo classico è la mancanza di un serio aggiornamento dei docenti di greco e latino (e italiano): lo so per diretta esperienza, in quanto sono stato spesso relatore in seminari svolti all’interno di scuole, ma le facce erano sempre le stesse — più o meno — sulla piazza di Milano dove insegno e svolgo il 90 per cento, su base di puro volontariato ma con grande gratificazione, della mia attività di formatore.
A sentire le parole del sottosegretario Faraone apparsa su La Stampa (13 luglio), c’è da stare “sereni”…. “Lo stesso ragionamento — dice il deputato siciliano che ha sostituito Reggi al Miur, famoso per voler far lavorare 36 ore i docenti italiani — vale anche nei concorsi per insegnanti: è assurdo non prevedere dei crediti in più per chi ha un dottorato in letteratura, in pedagogia, in sociologia o in qualunque altra disciplina che attesti conoscenza, approfondimento, eccellenza e metodo. Ridare dignità alla professione dell’insegnante vuol dire anche riconoscere il percorso che i docenti hanno fatto durante la propria formazione e che possono continuare a fare dentro la scuola.
Io considero l’aggiornamento dei docenti come una forma di ricerca-azione, altamente qualificata, che può condursi in sinergia con i dipartimenti di ricerca. È una cosa che accade normalmente in sistemi d’istruzione eccellenti o emergenti: Finlandia, Australia, Brasile”.
Io, abilitato Ssis, ho svolto un dottorato di ricerca in Scienze dell’antichità (tesi su “L’apprendimento delle lingue classiche nella prospettiva della Second Language Acquisition”) e posso dire di aver bazzicato abbastanza certa parte del mondo accademico dell’antichistica: solo una parte è seriamente interessata alla ricerca didattica che veda la virtuosa collaborazione tra università e scuola, mentre accade che il Tfa o altri succedanei delle “scuole dei professori” siano un modo per rimpinguare le casse svuotate da tagli e tagli agli atenei da parte del Miur.
La Buona Scuola appena approvata cerca di mettere una pezza su questo punctum dolens, imponendo una formazione annuale ai docenti di ben 50 ore! Si passa dunque da un sistema dove non era previsto, in pratica, alcun obbligo di aggiornamento se non quello volontario del singolo docente volenteroso, a un’obbligatorietà stabilita per legge e non per contrattazione! E perciò, a sentire Faraone, l’Italia può sperare di emulare i sistemi educativi non di paesi come la Germania e la Francia, che sono i nostri vicini di casa (dove gli stipendi sono assai sostanziosi a parità di tempo a scuola e vacanze al nostro e dove la valutazione dei docenti è svolto da un corpo di ispettori del ministero a ciò preposto), ma Finlandia, Brasile e Australia… quasi esotiche comparazioni.
In conclusione, per rialzare il livello dell’istruzione italiana e dunque riportare all'”eccellenza inclusiva” il liceo classico, occorre partire (anche e non solo) dalla formazione iniziale e dell’aggiornamento in servizio dei docenti con una visione di insieme: aver abolito gli Irrsae (Istituti di ricerca regionali, di sperimentazione e aggiornamento educativi) è stato, a parere dello scrivente, un vulnus al sistema dell’istruzione italiana, perché alcuni hanno prodotto interessanti e valide esperienze. Adesso dobbiamo sperare che i buoni propositi della Buona Scuola non rimangano solo sulla carta e che i sette liceali di Domodossola non rinuncino ai loro sogni, magari aiutati anche dalle lezioni in video-conferenza…