Con l’approvazione definitiva del ddl Buona Scuola non c’è dubbio che il volto della scuola italiana presenta novità significative, soprattutto in termini di maggiore autonomia e responsabilità dei dirigenti scolastici nella gestione dell’offerta formativa.

La riforma introduce due principi cardine che nel resto d’Europa e nei Paesi più evoluti da qualche tempo costituiscono il fondamento del sistema scolastico: il merito e l’autonomia. Ciò avviene attraverso il rafforzamento della figura del dirigente scolastico e dei suoi poteri, introducendo un sistema di valutazione nella selezione e nell’impiego degli insegnanti, e incentivi alla formazione e all’impegno dei docenti per un miglioramento dell’insegnamento.



L’altra grande novità è il rafforzamento dell’autogoverno di ogni istituto, garantendo maggiore flessibilità organizzativa, capacità di leggere i rispettivi punti deboli e strumenti per migliorare l’offerta formativa. E’ indubbio che la grande stagione iniziata con i decreti delegati del 1974 riguardante la gestione collegiale della scuola probabilmente sia destinata a chiudersi, perlomeno con le caratteristiche che abbiamo sperimentato in tutti questi anni. Eppure la cultura della collegialità è un riferimento fondamentale, in particolare in un’organizzazione di professionisti a legame debole dove le relazioni tra i membri sono scarse e non vincolanti. Infatti, l’esplicitazione di questa cultura della collegialità favorisce il confronto professionale quotidiano degli insegnanti e la condivisione, da parte di tutte le componenti educative, dei valori portanti della comunità che apprende che è la scuola.



Tuttavia, alle volte tale cultura della collegialità, intrisa magari di democraticismo, è stata un freno, un alibi corporativo alle azioni di miglioramento che la scommessa educativa oggi richiede. Molto spesso essa ha rappresentato un ostacolo per il riconoscimento del merito e la valorizzazione delle diverse professionalità dei docenti. Si sono consolidati apparenti egualitarismi della categoria docente che hanno determinato appiattimenti della professionalità e frenato azioni di riforma quanto mai essenziali nel modo di fare scuola, spesso fermo a metodologie obsolete, non in sintonia con i bisogni formativi delle nuove generazioni.



Quindi, ben venga la riforma Renzi se uno dei suoi obiettivi di fondo è quello di dar spazio al merito e alla valutazione del lavoro dei docenti; e se, in questa logica, si mira ad una nuova “responsabilizzazione del dirigente scolastico nella scelta e nella valorizzazione del merito del personale docente nonché nell’ottimizzazione dell’utilizzo delle risorse umane, finanziarie, strumentali”.

Certo il dirigente scolastico dovrà anche essere un leader educativo e un leader culturale riconosciuto dalla comunità in cui opera. Per questo la sua formazione dovrà essere ulteriormente arricchita, e dovrà essere assicurata la valutazione della sua azione professionale.

L’altra grande questione è certamente quella dell’autonomia delle scuole prevista dal Titolo V della Costituzione, che a mio giudizio è ancora lontana dall’essere pienamente realizzata. Permane l’impressione che la presenza e la vicinanza del potere politico sia talvolta troppo invadente, con interventi che spesso ignorano quelle che sono le reali necessità della scuola.

Arrivare ad una vera autonomia delle istituzioni scolastiche, come previsto dal Capo II e IV della legge Renzi sulla Buona Scuola è un obiettivo prioritario che va perseguito con convinzione senza “se” e senza “ma”.

Questo per pervenire ad un sistema più equilibrato, nel quale ci sia un’efficace e trasparente valutazione dei risultati formativi conseguiti dalle scuole, senza invasioni di campo, per un’azione autopoietica delle singole comunità educative. Tuttavia, l’autonomia diventa un fattore di qualità solo se è abbinata a un sistema di valutazione che chiede alle scuole di rendere conto alle proprie comunità di come utilizzano l’autonomia per favorire la riuscita formativa degli studenti.

Infine, se ogni istituto acquisisce un’anima, un’impronta caratterizzante, una sua efficacia formativa data da chi vi lavora e vi insegna, occorre che a guidarlo non sussista un solo uomo al comando, ma ci sia attorno al preside un’équipe, un gruppo dirigente, una squadra di collaboratori che a lui risponde dei risultati ottenuti.

Forse è il caso di cominciare ad assegnare un ruolo anche ai diretti collaboratori del dirigente scolastico, che non possono essere solo volontari continuamente sostituiti, ma diventano l’équipe che fa funzionare l’istituto, imparando ad essere classe dirigente della scuola, a sviluppare capacità di governo e di direzione, a rinnovare con idee e proposte il progetto didattico-formativo.

Dunque, autonomia, valutazione e miglioramento si reggono se vanno insieme. Il punto è che questa logica funziona solo se c’è qualcuno che risponde, in ultima istanza, delle scelte prese dalla scuola e dei risultati ottenuti. Questo qualcuno possono essere solo i dirigenti scolastici; bisogna, però, dare ad essi leve d’azione efficaci.

Naturalmente si può essere d’accordo o meno con questo modello di governo delle scuole. Chi non lo condivide dovrebbe spiegare chiaramente chi deve rispondere se una scuola non funziona e non riesce a migliorarsi nel tempo. Questa risposta sinora non è venuta da parte dei tanti che si oppongono alla riforma.