La scuola elementare fu istituita, nell’Italia appena nata, dalla legge Casati, un nobile milanese che dopo essere stato filoaustriaco si era schierato coi Savoia. Era articolata su due bienni, solo il primo dei quali obbligatorio.
Dopo la scuola elementare il sistema si divideva in due: il ginnasio e le scuole tecniche.
Contemporaneamente (Regio Decreto 4151 del 1860) venivano istituite le scuole normali per la formazione dei maestri che operavano per tre anni dopo i quattro anni delle elementari, sul modello franco-prussiano. Alle scuole normali pubbliche accedevano a 15 anni le femmine e a 16 i maschi. Il corso di studi durava due anni per il patentino di maestro di grado inferiore (1 e 2 elementare) e tre anni per il patentino di grado superiore (3 e 4).
Dopo numerosi e continui aggiustamenti sia del tempo scuola degli alunni che della formazione degli insegnanti approdiamo, nel 1923, alla seconda impostazione classica dello schema formativo di base con l’estensione di massa della frequenza scolastica a 5 anni di elementare e una relativa stabilizzazione del processo formativo degli insegnanti.
Con la stracitata legge Gentile (RD 1054 del 1923) furono abolite le vecchie scuole per la preparazione dei maestri e fu varato l’istituto magistrale.
Era suddiviso in due corsi: l’istituto magistrale inferiore, quadriennale, a cui si accedeva dopo la scuola elementare con esame di ammissione, e l’istituto magistrale superiore, triennale, a cui si accedeva dopo l’istituto magistrale inferiore. Gli istituti erano divisi in maschili e femminili come del resto le classi elementari e medie, generalmente divise fino a 40 anni fa allo stesso modo.
Nel 1940 tutte le scuole inferiori dei vari percorsi scolastici post-elementari più estesi furono unificate nella scuola media ginnasiale (con esame di ammissione) che operava, dopo i cinque anni di scuola elementare, per tre anni, accanto al triennio delle scuole di avviamento professionale. L’impostazione gentiliana rimase sostanzialmente in vigore fino al 1962, quando fu istituita la media unica.
Nel triennio successivo ai cinque anni elementari la frequenza scolastica riguardava (nonostante l’obbligo teorico fino a 14 anni) ancora minoranze della popolazione totale. Minoranze però crescenti, specialmente nelle città, legate all’inurbamento e al passaggio dalla condizione contadina a quella operaia, artigianale, commerciale, impiegatizia.
Questa crescita lenta ma incessante, divenuta tumultuosa nel dopoguerra, veniva assorbita in gran parte dalla scuola di avviamento professionale, istituita nel 1928 e chiusa nel 1962 mediante la fusione con la media ginnasiale e la nascita della scuola media unica.
I due fiumi di giovani che uscivano, prendendo strade diverse, dalla scuola elementare furono unificati nel 1962 dopo molti anni di discussione e di turbolenze, riguardanti sia i contenuti che il tipo di docenza che doveva proporsi per la scuola media.
Alla fine si stabilì, sull’onda tutta italiana degli entusiasmi e dei volontarismi scoppiettanti sempre uniti all’emergenza e alla carenza organizzativa, un orario per gli studenti di 25 ore settimanali obbligatorie e l’offerta di quattro ore aggiuntive libere e opzionali in seconda media ed otto in terza.
La febbre tempopienista non era ancora nata. Perdurava la tradizionale valutazione, da sempre applicata nella scuola, che l’orario settimanale delle lezioni in qualunque grado dell’istruzione dovesse aggirarsi intorno alle 24 ore settimanali. Questa valutazione, valida in tutto il mondo e legata alla necessità dello studio individuale e al computo della condizione giovanile, fu abbandonata completamente, nel volgere tumultuoso degli anni successivi.
All’inizio degli anni 70 nacquero le prime scuole medie sperimentali a tempo pieno con 40 ore per gli alunni e la mensa. I docenti erano un mix molto agguerrito del sinistrismo cattolico, del sinistrismo socialista e comunista e delle posizioni extraparlamentari molto diffuse nelle nuove leve di insegnanti. Tutti gli utopismi, tutti i futurismi, tutti gli antiautoritarismi, sostenuti dal Pci e dalla Cgil allora debuttante nel pubblico impiego, agivano di concerto, annientando qualunque resistenza culturale sia nei collegi docenti che nelle aule parlamentari. La Dc concepì allora (1974) i decreti delegati, cioè la rinuncia a dirigere l’innovazione della scuola scaricando sui collegi docenti e sui genitori le tensioni politiche e culturali. La cosa in un certo senso funzionò ed il sinistrismo scolastico, pur possedendo l’egemonia culturale, si impantanò e non riuscì mai a sfondare sul terreno organizzativo generale.
Prese il via comunque, nel silenzio dei genitori, favorito dalla spinta sindacale, dallo statalismo e da altri -ismi, il progressivo aumento delle ore settimanali per gli alunni. Tale prolungamento delle ore di scuola (concettualmente mitizzato nelle scuole sperimentali a tempo pieno allora a 40 ore col sabato libero) era abbastanza sottaciuto. Personalmente, allora giovane insegnante, partecipai ad innumerevoli dibattiti sulla riforma della scuola media varata definitivamente nel ’79 e mai colsi in primo piano (o non me ne accorsi, tutto preso dalla lotta alle bocciature, al docente autoritario e alla valutazione repressiva) il tema della duratadel tempo scuola degli alunni, che passò da 25 a 30 ore settimanali. L’inizio delle lezioni in quegli anni era passato dal tradizionale 1° ottobre alla prima decade di settembre.
Quattro anni dopo (1983) fu introdotto nella media il tempo prolungato (Tp), come possibilità discrezionale dei collegi docenti e dei genitori con orario alunni di 36-40 ore settimanali più l’intervallo mensa.
L’adesione fu parziale ed insoddisfacente per i sostenitori “filosofici” del Tp, per mille motivi che ho analizzato varie volte altrove. Il paradosso nel paradosso è che il tempo pieno, presentato oggi come aiuto alla famiglia, è, per gli ideologi del tempopienismo, il modo “nobilissimo” per sottrarre i giovani alla famiglia vista come il luogo della riproduzione delle diseguaglianze sociali. Certamente questa posizione ideologica non avrebbe vinto senza le schiere sindacal-statal-meridionaliste interessate solo all’aumento dei posti di impiego statale.
Dalla scuola media la febbre tempopienista iniziò a riversarsi nelle elementari e nelle superiori. Le scuole elementari erano però impervie alla penetrazione e l’egemonia, al loro interno, della cultura pedagogica cattolica tradizionale rimaneva molto forte.
Fino ad allora le scuole magistrali avevano formato il maestro tradizionale, un diplomato generalmente di altissime qualità professionali ed umane ricordate con rispetto e nostalgia da generazioni di alunni. La serietà di queste scuole e la predominanza in esse della cultura cattolica tradizionale, comprendente una visione realistica del fanciullo, ostacolava l’espansione e a volte perfino l’ingresso della cultura sessantottina e new age.
Cominciò allora l’attacco alle scuole magistrali, considerate l’epicentro del cattolicesimo conservatore, che doveva portare nel giro di vent’anni alla loro definitiva eliminazione.
Nel ’90, in mezzo a polemiche infuocate e interminabili, fu calata dall’alto la legge 148/90 che decretava il cambiamento delle elementari con l’aumento delle ore di lezione da 24 a 27/30. Le trenta ore, con l’aggiunta di dieci ore di intervallo mensa e gioco, formarono il curricolo di 40 ore settimanali tipico del tempo pieno elementare ancora oggi in vigore e ultrasponsorizzato dai vertici scolastici e dal sindacato. Nonostante ciò le classi a tempo pieno sono oggi solo 1/3 del totale delle classi.
Lo smantellamento delle scuole magistrali venne attuato mediante l’innalzamento del titolo di studio di base per l’aspirante maestro. Dal diploma si passò alla richiesta della laurea. Richiesta presentata come necessaria e rispettosa della grande importanza della funzione del maestro. Da allora tutti i maestri non laureati si sentirono ignoranti, retrogradi ed inadeguati, anche se la realtà scodellava sotto gli occhi di tutti la crescente inadeguatezza didattica e gestionale dei nuovi maestri. Ho verificato di persona questa realtà in sette anni di direzione elementare, nel corso dei quali le maestre solo diplomate andarono gradualmente (e malinconicamente) in pensione, sostituite dalle nuove maestre laureate, sensibilissime alle sollecitazioni dei media ma spessissimo incapaci di gestire sia le classi che le problematiche dei singoli alunni e delle famiglie.
Questo smantellamento è durato alcuni decenni (nel ’98 cessò la valenza del diploma magistrale come abilitante all’insegnamento) ed ha ancora degli strascichi, ma complessivamente è avvenuto senza clamore mediatico e teorico. Le amarezze delle maestre tradizionali non sono state supportate da nessuno. L’impeto del ’68, dell’anticlericalismo, del modernismo, del liberalismo, del nuovo cattolicesimo, non hanno lasciato scampo.
Ma proprio a funerali ormai fatti scopriamo che la vita nelle classi elementari è divenuta sempre più aspra e stressante. Scopriamo che già in prima elementare il buon clima ed il buon governo della classe sono ormai eccezioni, apprezzatissime dai genitori e dai bimbi come un miracolo. Più spesso, sono solo un sogno.
La febbre tempopienista negli anni 90 si estese anche alle scuole medie superiori proprio nel corso del procedimento rompicapo per eliminare l’anomalia magistrale. Infatti il diploma magistrale si otteneva in quattro anni dopo la media, a differenza dei cinque anni necessari per gli altri diplomi. Scattò il sacro principio dell’uniformità.
Si sarebbe potuto anche equiparare sui quattro anni il percorso di tutte le scuole superiori, dando così anche all’Italia i tempi dei diplomi europei. Ma questa idea, sollevata per due volte dai ministri Berlinguer e Moratti nel ’96 e nel 2001, fu osteggiata furiosamente, ovviamente in nome della suprema qualità dell’istruzione, in realtà per difendere l’organico pletorico.
La qualità della scuola però ha continuato a diminuire in tutti gli ordini di scuola.
Il processo di uniformazione a cinque anni (con 32 ore settimanali medie) delle scuole secondarie è durato 40 anni e si è concluso con la riforma Gelmini nel 2010, a regime da questo anno, che ha rappresentato anche la fine di tutte le sperimentazioni secondarie e degli istituti professionali di stato triennali.
Nelle sperimentazioni l’enfasi era sempre “metodologica” e “culturale”; tuttavia dietro le quinte avanzava, sempre, inesorabile per gli studenti e per la spesa pubblica ma appetibile per tutti gli -ismi, l’aumento quantitativo de curricolo. Nelle sperimentazioni Brocca si raggiunse, negli anni 90, l’acme del furore tempopienista, che vide modelli di 34-35 ore settimanali. In quegli anni l’idea che tutto si risolvesse aumentando il tempo scuola a tutti, salvo i docenti, ai quali anzi nelle elementari l’orario era passato da 24 a 22 ore settimanali, era diventato un dogma indiscutibile.
Viste dall’angolazione che ho cercato di prospettare, le “riforme” degli ultimi decenni sono state, sulle spalle degli studenti, riorganizzazioni funzionali principalmente all’aumento del personale, protetto e garantito dal vero gestore della scuola, il sindacato.
I risultati, sia sul terreno dell’apprendimento che su quello formativo sono disastrosi ed il clima delle scuole è ormai disarmante. Bisognerà meditare molto e con sincerità sulle macerie che abbiamo creato, per trovare la forza di tentare almeno una riforma vera.