Superate, almeno per il momento, le traversie delle contrapposizioni polemiche, cominciano ad apparire valutazioni meno condizionate dal confronto politico sul recente riordino di numerose materie scolastiche approvato dal Parlamento il 9 luglio scorso. Ho detto intenzionalmente “riordino” perché non mi pare si possa parlare di una vera e propria riforma. Il provvedimento interviene infatti su una grande quantità di questioni e tematiche e, salvo il fragile tema conduttore dell’autonomia, è difficile trovare un fil rouge ispiratore. Una riforma esprime un’idea “forte” di scuola: riforme vere furono quelle che a suo tempo ridefinirono il ruolo “partecipato” e “sociale” della scuola (decreti delegati del 1973-1974) e, in seguito, introdussero il principio dell’autonomia scolastica (1997). Riforme altrettanto vere, per quanto senza esito, sono state in tempi più recenti quelle di Berlinguer (connotata dal riordino dei cicli) e di Moratti (con la proposta del doppio canale e della personalizzazione).



Nel mare magnum della legge Renzi-Giannini non c’è un’idea di scuola comparabile a quelle appena accennate. Bene o male? Forse è bene, a condizione che le norme messe in campo consentano alle singole realtà scolastiche di darsi un’idea di scuola e di perseguirla con coerenza. In un contesto di piena libertà scolastica regolata soltanto dall’obbligo della rendicontazione e, dunque, non più pilotata dalle procedure central-ministerialiste il compito di dare un’anima alla scuola passa ai docenti, alle famiglie e a quanti a vario titolo nei diversi ambiti sociali hanno a cuore l’interesse dell’educazione.



Questo passaggio sarebbe certamente stato facilitato se il legislatore avesse messo mano anche agli organi collegiali, che restano quelli di 40 anni fa, se avesse oltrepassato i concorsi gestiti centralmente, se avesse rafforzato l’organizzazione periferica per reti scolastiche, se si fosse astenuto dalla minuziosa elencazione degli obiettivi formativi a da varie divagazioni didattiche come quelle, ad esempio, riguardanti la flessibilità, già prevista dalle norme del 1999, se alle immancabili competenze avesse accostato l’opportunità di valorizzare le capacità nel senso, ad esempio, suggerito da Martha Nussbaum nel suo bel libro Creare capacità (2012), o come indicato dalle non cognitive skills di James Heckman. Detto questo, non sembra tuttavia il caso di fermarsi a lamentare il bicchiere mezzo vuoto (o, secondo altre letture, a far credere di trovarsi di fronte a un bicchiere addirittura traboccante).



L’obiettivo più ragionevole è invece quello di avvalersi al meglio delle nuove norme per migliorare la scuola, “darle un’anima” e rispondere alle attese dei giovani e delle famiglie. La scuola non serve ad assicurare posti di lavoro, è utile se persegue lo scopo di formare persone preparate, responsabili e buone. A me sembra che in vista di questo obiettivo ci siano da affrontare due ordini di questioni: una di natura apparentemente più tecnica legata alla decretazione necessaria per completare il quadro legislativo; e una invece di impianto formativo-pedagogico volta a disegnare, per l’appunto, l’idea di scuola. Per quanto riguarda la prima questione occorrerà vigilare perché gli spazi di libertà non siano compressi entro decreti e regolamenti amministrativi condizionati dai lacci e lacciuoli cui è affezionata una resistente e quasi inossidabile mentalità centralista, ministeriale e non solo.

Mentre l’attenzione dell’opinione pubblica nei prossimi mesi sarà concentrata sulla complessa operazione di reclutamento degli ex precari, è facilmente prevedibile che abili “manine” tenteranno di ridimensionare ulteriormente quel che di utile, buono e orientato alla libertà è oggi codificato nella legge. Una parola qua, un aggettivo là, un inciso verbale spostato dal modo condizionale a quello imperativo, insomma tentativi per ridimensionare, alleggerire, soppesare. Per quanto imperfettamente e incompiutamente la legge di questi giorni si ispira al principio dell’autonomia — ovvero libertà più responsabilità — è dunque in quest’ottica che anche decreti e regolamenti dovranno compiersi. Per quanto riguarda gli aspetti formativo-pedagogici toccherà alla capacità delle scuole di comprendere la portata delle innovazioni possibili e, soprattutto, renderle coerenti con l’idea di scuola che ciascun istituto è tenuto a concretamente coltivare e non soltanto ad esibire nel Piano dell’offerta formativa.

A questo proposito una prima tentazione sarà sicuramente quella di leggere il provvedimento nell’ottica organizzativo-funzionalistica secondo cui la “buona scuola” è quella che funziona bene, ove ciascuna fase è programmata, scandita da regole condivise, valutata in modo appropriato. Questa visione proceduralista — quanto migliori sono le procedure tanto più efficace sarà il risultato — appartiene a una cultura che concepisce l’azione della scuola soprattutto in rapporto alla prestazione (il binomio efficienza-risultato). Secondo questa impostazione, ad esempio, la personalizzazione coincide con l’individualizzazione: quanto più si conoscono gli allievi sotto il profilo delle potenzialità e delle fisionomia psicologica, più ampie saranno le risorse a disposizione dei docenti per agire con successo.

La dispersione, a sua volta, viene contrastata soprattutto perché disfunzionale rispetto alle esigenze di un mondo produttivo che non può tollerare bassi livelli di conoscenza, eccetera. Se si scorrono le ragioni addotte da molti protagonisti favorevoli alla Buona Scuola renziana si constata come le spinte “modernizzatrici” abbiano largamente e quasi monopolizzato i dibattiti di questi mesi. Queste tesi godono dell’evidenza che il sistema scolastico italiano, comparato alla realtà delle scuole europee dai risultati più validi dal punto di vista dell’apprendimento, appare debole e, dunque, sarebbero da cogliere e valorizzare tutti gli spunti della nuova legge per ottimizzare il rendimento scolastico.

Ma l’idea di scuola ricondotta agli aspetti funzionalistici finisce per sottovalutare il fatto — fondamentale per chi ha esperienza di giovani allievi — che chi va a scuola non è solo un soggetto da rendere efficiente e utile alla società, ma anche una persona in formazione che vede negli insegnanti non solo degli organizzatori ed erogatori di saperi e promotori di competenze, ma anche e soprattutto modelli di adulto con cui confrontarsi. Quanto più alto è il numero dei docenti che avvertono questa responsabilità, tanto più la scuola sarà realmente “buona”.

Come dimostra la quotidiana esperienza, molto della vita scolastica è infatti affidato all’esercizio di una equilibrata saggezza pedagogica e a una matura visione educativa. In quanto appartenente alla categoria dell’opinabile e, conseguentemente, del difficilmente misurabile, questa dimensione del capitale professionale, inutile negarlo, gode oggi di modesto credito, mentre è invece particolarmente apprezzata da allievi e famiglie. È indicativo che nei “passa parola” che i genitori si scambiano prima dell’iscrizione dei figli ad una scuola si cerchino docenti bravi educatori oltre che professionisti ineccepibilmente competenti, insomma insegnanti capaci di essere anche “maestri”.

La traduzione operativa della Buona Scuola negli istituti scolastici potrà onorare l’impegnativa intitolazione con cui la legge è nota se, approfittando degli spazi di autonomia, saprà coniugare efficienza e sapienza educativa. È precisamente intorno a questo binomio che si gioca la sfida di un’idea di scuola all’altezza delle attese delle famiglie e dei giovani.