Alessandra sta scrivendo il suo tema d’esame. Come quasi sempre succede nella sua scuola, nella seconda parte dell’anno della terza media, si è esercitata a scrivere una serie di testi sulla sua avventura scolastica, perché la prima traccia solitamente richiede proprio una sorta di bilancio degli anni trascorsi e in particolare dell’ultimo, anche ragionando in prospettiva sulle scelte intraprese per il futuro. Alessandra è rossa in volto come sempre quando scrive, affannata, storta sul banco, con la mano che quasi spezza in due la penna. Ma non è disgrafica. Non è nemmeno dislessica o discalculica. Ha avuto tanta confusione in testa da sempre, certo, ma soprattutto dall’inizio della seconda media, quando il suo papà è stato tirato via dal suo mondo da una malattia più forte di tutte le sue preghiere e i suoi pianti.
La mamma ha cercato come ha potuto di starle ancora più vicina, ma Alessandra si è sentita sempre più persa: ha cominciato a camminare nel mondo non sapendo dove mettere i suoi piedi, a chi appoggiarsi, a chi rivolgersi. E’ diventata sempre più insicura in ogni cosa che faceva, anche a scuola. La mamma era giustamente preoccupata, ma non c’era uno straccio di professionista che potesse tirare fuori una qualche diagnosi particolare che le potesse consentire di avere un sostegno. Che diagnosi si può fare per una bambina che ha visto andare via per sempre il suo papà? Le sue fragilità sono diventate più grandi. E i professori se ne accorgono, e non stanno a guardare. Nella classe di Alessandra ci sono due ragazze con problemi di apprendimento seri, hanno una certificazione con tanto di firme e controfirme dei medici, quindi hanno diritto a un’insegnante di sostegno.
A lei gli altri professori chiedono di prendersi cura anche di Alessandra per alcuni aspetti del suo percorso scolastico. E’ sempre stato fatto. Ma adesso la scuola italiana prevede non solo la possibilità di farlo, preme invece perché vengano attuate tutte le misure per un’inclusione reale di tutti gli alunni: valutate le difficoltà del ragazzo, il consiglio di classe può stendere un Pdp, un piano didattico personalizzato che prevede modifiche rispetto al piano di lavoro della classe, riduzione di contenuti, metodi semplificati, testi e sussidi diversificati, compensazioni e dispense rispetto al programma generale.
Insomma, la scuola con le sue leggi ha previsto quello che il buon senso già dettava da sempre agli insegnanti: nel Pdp vengono indicate finalità, motivazioni, scelte, strategie e metodi, strumenti e tempi di quanto si intende realizzare. Poi lo si sottopone ai genitori, in doppia copia con tanto di firma, a suggellare una specie di contratto tra la scuola e la famiglia. Ecco, questo non si faceva, ma non so se era meglio o no. Anche per Alessandra il coordinatore di classe ha stilato il Pdp, ha convocato la mamma e l’ha fatta firmare: è una cosa che può essere temporanea, si chiama Bes, bisogni educativi speciali, e mentre la guarda e parla con questa donna che ha negli occhi apprensione e timore, si chiede se anche per lei e anche per lui non si possa parlare di bisogni educativi speciali. Certo che sì, cos’altro siamo noi tutti, se non un bisogno educativo speciale, ciascuno a modo suo? Per fortuna Francesca, la professoressa di sostegno delle due compagne di Alessandra, lo sa. Ben al di là del Pdp e di tutte le carte che si possono firmare.
Francesca sa, come il don Pino Puglisi del romanzo di D’Avenia Ciò che inferno non è, che “un bambino non guardato è un bambino perduto” e che “quando qualcuno ti vuole bene, dice il tuo nome in modo diverso. E’ come se il tuo nome sta al sicuro nella sua bocca”. Ecco allora che cominciano due anni difficili di convivenza e fatiche, di successi e insuccessi, di smemoratezze e confusioni, con passi avanti e ritorni, ma sempre dentro un’accoglienza che la guarda con attenzione e le chiede con decisione un impegno che spesso non è in grado di assumersi.
Ma è promossa. Anche in terza media rimane il suo bel Pdp, ma per fortuna rimane soprattutto Francesca con gli altri professori che non demordono, anche quando sembra che la sua confusione addirittura peggiori con l’età e gli sbandamenti che si porta dietro. C’è l’esame e Francesca insiste con lei e con le altre per costruire un percorso che consenta loro di districarsi all’orale e agli scritti. Ma le altre avranno un trattamento diverso: loro hanno un Pei, loro hanno la 104, loro hanno firme di medici e professionisti. Lei no. Loro potranno fare uno scritto di inglese, spagnolo e matematica diverso dagli altri, uguale a quello che hanno fatto con Francesca negli ultimi mesi. Potranno fare una prova Invalsi appositamente costruita per loro da Francesca. Lei no: lei farà lo scritto di inglese, di spagnolo, di matematica e l’Invalsi esattamente come quello di tutti i suoi compagni. Perché lei è un Bes, ha bisogni educativi speciali, ha avuto un percorso personalizzato, ma l’esame no, lei è normodotata e dunque farà tutto quello che è richiesto agli altri, questo recita la legge italiana.
Certo, adesso che la scuola è finita e la Buona Scuola è legge, forse sarebbe anche ora di stendere un silenzio da meritata vacanza su cose così futili e particolari come l’esame di terza media di Alessandra. Ma come lei quanti ce ne sono? Che senso ha tutto questo agitarsi di legislatori e presidi e formatori intorno all’inclusività, quando poi accadono cose come queste? Che senso ha costruire corsie preferenziali, se poi mi devo infilare nella colonna a un casello troppo stretto e trafficato perché chi è arrivato con la sua velocità e le sue diverse competenze ci possa passare? Alessandra ha fatto il suo tema: ha parlato delle sue fatiche e di quello che ha imparato, ma ha parlato soprattutto dello sguardo di Francesca e della pizza che ha mangiato con lei e le altre ragazze la sera prima del tema. Alessandra ha fatto l’Invalsi come gli altri ed è riuscita a farlo bene, così come inglese e spagnolo. Matematica no: anche se aveva le tavole e la calcolatrice, il suo scritto è stato un quattro rosso e profondo come una ferita. Ma non è bastato per bocciarla: al colloquio se l’è cavata anche meglio di altri, non ha portato chiavette o power point, ha parlato degli argomenti che con Francesca aveva approfondito. Ed è stata sicura come non mai. Rossa, affannata, felice di poter dimostrare di sapere destreggiarsi in una prova così.
Il suo papà l’avrà guardata dal posto in cui è e sarà stato felice anche lui. Non so se Alessandra ha finalmente vinto tutte le sue insicurezze e fragilità, non so quando e se Alessandra verrà tolta dalla lista dei Bes. So che il suo esame è stato una grande prova, e che, in generale, però, la legislazione dovrebbe riconsiderare queste situazioni: i percorsi personalizzati si devono infilare nell’imbuto di una finta uguaglianza? Quanti come Alessandra sono riusciti ad affrontare con successo prove che non hanno affrontato nel corso degli anni? Ma anche: l’ansia di codificare, di definire, di certificare la diversità, a qualsiasi titolo, di standardizzare poi gli interventi didattici secondo uno schema ripetitivo di strumenti compensativi e dispensativi, è davvero il modo migliore per favorire un percorso d’apprendimento per chi si trova ad avere delle difficoltà? Di che cosa ha davvero bisogno un ragazzo che cresce? Alessandra, dopo il colloquio d’esame, è tornata a vedere quelli dei suoi compagni. Poi è venuta a prendere il certificato delle competenze con la mamma. Mi ha chiesto se poteva tornare a trovarci quando sarà alla scuola superiore, se avrebbe trovato ancora Francesca.
Forse ha ragione don Puglisi: un ragazzo che cresce ha bisogno di uno sguardo che lo accompagni. Allora la scuola, invece di pensare a essere una buona scuola, perché non riflette su ‘sta storia dell’inclusività? Perché in realtà, poi, al di là di quello che si decide in Parlamento, la scuola va avanti così: con i Bes, i Pdp, i Pei, i Pof e soprattutto con i Pai. Che una volta erano delle patatine e oggi è la parola d’ordine di ogni collegio docenti che si rispetti. Ma questa è un’altra storia che forse varrà la pena di raccontare.