In un recente articolo sul Corriere della Sera dal titolo “L’italiano dimenticato” Paolo Di Stefano lamenta (come altri osservatori altre volte) le parole sbagliate, i verbi usati male, gli errori di ortografia che intralciano il cammino di studenti universitari (e poi di professionisti), tanto che le università cominciano ad attrezzarsi. Il tema ha avuto nel tempo anche i suoi risvolti comici, come il noto ppt Almeno l’itagliano, sallo che raccoglie castronerie lessicali e sintattiche piuttosto divertenti (e tragiche).
La tesi del giornalista però è in parte nuova e interessante, cioè che la lingua si disimpari a partire da un certo periodo scolastico. Scrive Di Stefano: “È noto, secondo i famosi (o famigerati) rilevamenti Invalsi, che la gran parte degli studenti che escono dalle scuole superiori non sa scrivere, manca dei fondamenti testuali, grammaticali, lessicali, sintattici: dopo le scuole medie, si disimpara l’italiano, e la tendenza verso il basso continua negli anni dell’università e poi in età adulta. Un fenomeno di regressione, il cui primato europeo spetta all’Italia, come ha dimostrato un anno fa anche la ricerca internazionale Piaac (Programme for the International Assessment of Adult Competencies)”. Senza cadere nella tentazione di dare la colpa a un certo segmento scolastico, a me sembra che, persa la fiducia nell’adulto-maestro, l’adolescente si chiuda nel rapporto fra i pari e cominci a perdere la curiosità, l’abbrivio, o forse un certo fascino per il mondo adulto.
L’articolo prosegue con segnalazioni editoriali che dovrebbero essere utili “per rimediare all’analfabetismo di ritorno che concerne il leggere e lo scrivere, oltre al far di conto”. In realtà più che di regole, e di libri che le insegnino, avremmo bisogno di maestri e di esempi. Invece il buon parlare, il bello scrivere puzzano di stantio e non sono tenuti in onore. La televisione nazionale, negli anni del boom non solo economico ma della lotta all’analfabetismo, produceva i magnifici “sceneggiati”, che oltre a far conoscere le opere letterarie proponevano al popolo che usciva dal monolinguismo dialettale un linguaggio “imitabile”. Il trash impera in tv, e non parliamo della politica; la scuola, come sempre, rema contro corrente. Perché stupirsi poi di ciò che si tollera altrove?
Sembra retorico dire che la conoscenza adeguata della lingua nazionale è “ragion d’essere primaria della scuola”, che ha il compito di ampliare l’uso, passivo (ascolto e lettura) e attivo (parlato e scritto) della lingua, con particolare ma non esclusivo riferimento alla dimensione colta della lingua, diversa dalla lingua parlata. Sempre che una lingua diversa dal parlato sia un “obiettivo” da proporre ai giovani, specialmente ai preadolescenti. Purtroppo non è così: anche la letteratura per anni ha mimato il parlato, mentre la scrittura anche giornalistica accetta periodi in cui le reggenti si susseguono separate solo dalla virgola, e il lessico più sofisticato è condannato in nome del valore unico della “leggibilità” (un valore altamente democratico, ma controproducente: il popolo non sa più parlare, mentre le nostre nonne in montagna parlavano un ottimo italiano).
Nella scuola probabilmente la lingua è presidiata, ma la lotta col mondo intorno è impari: gli obiettivi prevalenti sono trasversali (v. competenze di cittadinanza) e il contesto è imponente. Fra prof ci diciamo sempre che siamo gli unici a resistere!
In un clima un po’ ipocrita, in cui si chiede alla scuola quello che la società non supporta, i Lincei hanno promosso già da qualche anno un progetto svolto d’intesa con il ministero dell’Istruzione chiamato “Italiano scritto e italiano argomentativo”, partito da una serie di lezioni di Luca Serianni a commento di scritti di buona fattura (saggio o prosa giornalistica, scritti un po’ di nicchia di cui grazie al cielo non siamo privi). Il “buon modello” deve essere prima di tutto compreso: perché è buono? Perché funziona? Quali sono gli elementi che lo fanno distinguere dalla prosa arrangiata di tanti manuali scolastici? Perché un articolo è “brillante”? Il progetto si è ampliato nel corso degli anni con diversi poli in Italia che organizzano momenti di formazione per gli insegnanti di ogni ordine e grado.
Un altro segnale positivo è il settore dedicato al lessico nelle Indicazioni nazionali, con obiettivi specifici e attenzione finalmente degna dell’oggetto. L’insegnamento della grammatica, per molti anni sacrificato, vive una nuova stagione in cui si comincia a parlare del nesso fra grammatica e testualità (v. il convegno di ASLI Scuola nel febbraio scorso) nel senso che anche la riflessione sulla lingua non va disgiunta dalla riflessione sulle regole che fanno di un testo uno strumento comunicativo efficace.
Quest’anno ho cercato come docente di affrontare il tema dell’efficacia comunicativa, mostrando ai miei studenti esempi di “buoni parlatori” e analizzando con loro che cosa li rendeva tali (qui youtube aiuta molto e il videoproiettore in aula è indispensabile). Ho cercato di far parlare in pubblico i miei studenti: un testo che fosse coerente, avesse delle parole chiave e puntasse direttamente a dare all’ascoltatore informazioni e giudizi interessanti su un argomento scelto (tutti sulla Grande guerra). Il “pubblico” era la classe, ma parlare per interessare e per subire un contraddittorio non è lo stesso che farsi interrogare nel disinteresse generale. Ho letto I promessi sposi, contravvenendo a tutte le consuetudini didattiche che avevo negli anni precedenti elaborato, semplicemente proiettando il testo e mostrando dal vivo (pennarello alla mano e lavagna interattiva) le scelte lessicali sintattiche e stilistiche che ne fanno un libro d’eccezione; continuamente ricordando quanto era innovativo, moderno, ardito il modo di scrivere di questo autore lombardo della prima metà dell’800; quante scelte nell’organizzazione del tempo e dello spazio, nella commistione degli stili, nel tratteggio dei particolari lo rendono indimenticabile. Credo che il “contenuto” (quello a cui tengo) sia passato meglio di altri anni, nonostante la fatica di stare dietro ai periodi non proprio vicini al parlato.
Ho fatto questo perché mi diverto io a sperimentare, ma il peso dei pacchi da correggere non è diminuito: combattiamo tutti la buona battaglia della sopravvivenza quotidiana. L’effetto della “didattica dell’efficacia” però è che due mie alunne hanno mandato al Sussidiario due brevi articoletti sulla visita a Expo, che mi sono parsi non solamente dignitosi, ma efficaci.
Credo che imparare a dirsi sia meraviglioso per un ragazzo, che in fondo cerca qualcuno che lo ascolti. Non è che la disaffezione alla lingua dipende dalla scarsità di veri ascoltatori? Con chi parlano i nostri ragazzi? E per dire che cosa: cose importanti, belle, utili, che vale la pena dire? I migliori studenti — si sa — sono quelli che hanno dei genitori presenti: non per forza colti, e non presenti perché li soffocano di attenzioni e controlli, ma perché parlano con loro e li ascoltano.