Alla fine degli anni Novanta, lo stato dell’Ohio, di fronte alla pessima situazione delle scuole nel distretto di Cleveland, varò un progetto pilota di borse di studio destinate a consentire ai ragazzi di scegliere una scuola privata tra quelle che aderivano al programma, o – se preferivano – di restare nella scuola pubblica, usufruendo di un supporto tutoriale: i due progetti avevano lo stesso numero di borse. Tra coloro che ottennero il finanziamento, il 60% era sotto la soglia della povertà, e le famiglie che scelsero di passare alla scuola privata nel 1999/2000 iscrissero nel 96% dei casi i propri figli a una scuola confessionale: la percentuale di scuole confessionali fra quelle aderenti al programma era dell’82%. 



A questo punto, un gruppo di cittadini fece causa a Susan Zelman, sovrintendente scolastico dell’Ohio, sostenendo che il programma violava il primo emendamento della Costituzione americana, che vieta qualsiasi supporto dello Stato federale a specifiche confessioni religiose. Il 27 giugno del 2002, nella sentenza “Zelman vrs. Simon-Harris” (chi fosse interessato ai particolari può cliccare qui), la Corte Suprema degli Stati Uniti deliberò con cinque voti contro quattro che il programma non violava il primo emendamento in quanto assegnava il denaro alle famiglie, che erano libere di spenderle in qualsiasi scuola che rispondesse a determinate caratteristiche (fissate dal bando per le scuole aderenti, ed elencate nella sentenza). 



Mi sono dilungata su questa sentenza, considerata “storica” dai sostenitori della scelta negli Stati Uniti, perché ritengo che consenta di affrontare da un punto di vista meno banalmente ideologico la questione dei finanziamenti alle scuole non statali: se lo Stato sostiene il diritto dei meno abbienti a un’educazione di qualità liberamente scelta, e a questo scopo destina del denaro, dopo aver controllato tra le scuole partecipanti il possesso di determinati requisiti, poi non può sindacare sulle scelte compiute. 

È la linea adottata in Italia da alcune regioni, anche se limitatamente, e gradita da molte scuole perché affida direttamente alle famiglie, e non a un’organizzazione burocratica, il giudizio sulla qualità della scuola stessa. Ma c’è un’altra ragione: non penso che “Zelman” sia nota in Italia se non a pochissimi addetti ai lavori, e mi pare comprensibile, mentre altri dati lo sono e vengono sistematicamente ignorati, e questo mi pare meno comprensibile. 



Per esempio, si dovrebbe sapere che da quindici (quindici!) anni le scuole paritarie non sono private, ma fanno parte a tutti gli effetti del sistema scolastico nazionale. 

Per esempio, dato che l’articolo 33 parla solo di “senza oneri per lo Stato”, ci si potrebbe chiedere che fare se la presenza di scuole non statali adeguatamente finanziate consente un risparmio alla spesa pubblica per l’istruzione, a parità di rendimento o con un rendimento superiore (ed è questo il motivo principale per cui tutti gli stati europei tranne la Grecia supportano il sistema non statale). 

Per esempio, invece di scendere in piazza per contestare la privatizzazione della scuola, si potrebbe prendere atto del fatto che dal 2000 a oggi, tenendo conto anche solo dell’inflazione, il finanziamento alle scuole paritarie è diminuito, e non aumentato, sia pro capite che in valore assoluto, e nulla ha sottratto al sistema pubblico o scuola statale, da cui nemmeno un centesimo è stato tolto per darlo alla non statale. 

Per esempio, si potrebbe avere chiaro che la quasi totalità dei fondi viene data alle scuole dell’infanzia (66%) o primarie (30%), e del restante 4%, metà spetta ai disabili, per un totale di circa mille euro a testa – da confrontare con il costo di un insegnante di sostegno… – e quindi alle scuole secondarie di primo e secondo grado va circa il 2% degli stanziamenti, con un costo per ciascun ragazzo delle medie di circa 100 euro, e per la secondaria di circa 150, contro rispettivamente i circa 7.500 e 8.000 della scuola statale. 

Per esempio, ci si potrebbe chiedere come mai i ragazzi “statali” costano così tanto di più di quelli “privati”, magari per cogliere qualche suggerimento sul piano dell’organizzazione, spendendo i soldi risparmiati per ridurre gli abbandoni e migliorare i risultati di apprendimento.

Per esempio, si potrebbe dire chiaro che la scuola paritaria costituisce un mercato del lavoro regolare (se gli insegnanti sono in nero o sottopagati, la paritarietà non viene concessa) per molte decine di migliaia di docenti e non docenti, trattati come figli di un dio minore, a meno che non si redimano e passino allo Stato, che sarà felicissimo di trovare da qualche parte i soldi per pagarli. 

Per esempio, si potrebbe prendere atto che le scuole paritarie, soprattutto quelle confessionali, cercano in ogni modo fondi per consentire a tutti di frequentarle, e i casi in cui i ragazzi la cui famiglia si trova in difficoltà restano fino alla fine degli studi sono la normalità. È lo Stato, non la scuola “dei preti”, che seleziona i “ricchi” impedendo ai “poveri” di frequentare una delle due gambe del sistema scolastico nazionale. 

Fermiamoci qui. Mi occupo di “pubblico/privato” da quarant’anni, e nessun argomento – nessun argomento – viene ascoltato da chi ha già formulato il proprio (pre)giudizio. Una sola ultima curiosità: nessuno viene chiedermi un giudizio sulla metropolitana romana, che pure ho utilizzato per quattro anni, o su una mostra di sculture antiche, che pure ho visitato e apprezzato: mi si chiede di illustrare i miei lavori, per esempio il libro (SOS educazione) da cui ho tratto tutti gli esempi citati. Perché, allora, quando si tratta di scuola i giornalisti chiedono il parere di persone certamente di elevato livello, ma in tutt’altro settore? 

Forse per quella che noi poveri educazionisti definiamo “trasferibilità delle valenze professionali”, per cui chi eccelle in un settore sarà bravo in tutto? Ma i latini dicevano “sutor ne ultra crepidam” (traducibile per i lettori leghisti con “ofelé fa el to mesté”) e Gadda, autore da me molto amato, nella raccolta di racconti “Le bizze del capitano in congedo”, criticando le villette in stile chalet diffuse in Brianza si chiede come mai i geometri lombardi usino la Svizzera come fonte di ispirazione, in quanto (cito a memoria perché sono in vacanza e non ho il testo sottomano) “in nulla pertiene all’edificar case l’abilità nel costruire orioli”…