“Il tema è sufficientemente corretto dal punto di vista ortografico e grammaticale, la sintassi non sempre risulta chiara e lineare, presentando qualche costruzione doppia o colloquiale; il testo però è chiaro e affronta anche in modo approfondito e personale gli argomenti proposti e dimostra un lavoro serio di studio e documentazione sui contenuti svolti in classe“. E’ il giudizio che si legge al termine di un tema di un alunno della classe terza della scuola secondaria di primo grado (già qui il mio direttore direbbe che la faccio lunga, ma purtroppo non sono io che ho deciso che non si chiama più scuola media: che male c’era?).
Ebbene, con tutti i problemi che attanagliano la scuola italiana, e in particolare quella scuola lì, c’è forse il tempo di soffermarsi su un giudizio che il prof ha scritto per un tema? Cercherò di dirlo nelle prossime righe: sì, è il caso di perdere tempo su una questione apparentemente secondaria (non nel senso della scuola, ma dell’importanza) come questa.
Buona Scuola sì, o Buona Scuola no, le indicazioni, anzi le linee guida, che provengono dal ministero sono abbastanza chiare e decise: si proceda a un nuovo modo di certificare ciò che l’alunno sa e sa fare, che poi vuol dire anche un nuovo modo di valutare e, come conseguenza, un nuovo modo di programmare, cioè di insegnare. A parte l’inghippo logico-filosofico — ciò che nella scuola emerge come una conseguenza, dovrebbe a rigore essere una premessa — da alcuni anni in tutte le scuole di ordine e grado si discute, ci si aggiorna, ci si accapiglia pure (gli insegnanti, si sa, sono come i loro alunni) su termini come conoscenze, abilità, competenze; o ancora, come finalità, obiettivi e traguardi. Io provo ad avere davanti tutte queste discussioni, leggi e circolari applicative, a fingere che un certo risultato sia stato raggiunto in ordine a una minima condivisione del significato di quei termini e a guardare quel tema e quel giudizio da cui sono partito.
Dunque: qualche giovane professore, e qualche suo anziano collega, ha pensato di brandire le linee guida e le circolari come una clava per spazzare via la scuola della tradizione, quella rivolta al passato e alla nostalgia e finalmente di potere dare inizio alla rivoluzione. Quale? Quella delle competenze, che poi porta direttamente a quella finalmente inclusiva e che poi porta a quella dell’autovalutazione. Ma sarà vero che la scuola delle competenze potrà fare a meno del buon vecchio tema? Più leggo le linee guida, più ascolto cattedratici parlare sulle applicazioni delle indicazioni, più mi convinco che si parli, ebbene sì, del vecchio tema. Quando si parla di prove autentiche, quando si parla di situazioni complesse dentro le quali l’alunno deve dimostrare non solo di sapere le cose, ma di saperle applicare, e di saperle gestire in situazioni nuove e complesse, di cosa diavolo mai si parla?
Guardiamo il giudizio di quel professore al termine del tema. Esso dice che in classe è stato fatto un lavoro di apprendimento su alcuni contenuti, che è stato fatto un lavoro di riflessione sulla lingua, che sono state date indicazioni di scrittura, che c’è stato un lavoro di discussione per approfondire. E tutto ciò, alla fine, viene come provato in un testo che costituisce un banco di prova per la capacità di gestire e applicare i dati conseguiti, in modo personale e creativo, anche. Non è che le linee guida intendessero proprio questo quando parlavano di prove autentiche? Non è che ciò che scrive il ministero sottintenda una sorta di rivoluzione precedente, non sempre dichiarata, ma qualche volta appoggiata da altre circolari, che aveva operato scelte riduttive nella pratica didattica quotidiana e che ora ci si rende conto che occorre tornare alle cose autentiche?
Per essere ancora più chiari: dopo qualche decennio in cui qualche ministro e professore, scimmiottando malamente la scuola anglosassone, importando maldestramente nozioni di docimologia e statistica, ha somministrato prove con crocette vero/falso in ogni materia scolastica, forse ci si rende conto che occorre tornare a guardare alle esperienze che possono davvero mettere in gioco le diverse competenze. Vuoi vedere che la scuola delle competenze è quella di quel professore lì che, per fare quel tema, ha fatto vedere Blade Runner, ha fatto leggere Leopardi e Montale ai suoi alunni e poi ha chiesto loro di scrivere se c’è e qual è il desiderio che li muove ogni giorno? Ci sta dentro l’analisi del linguaggio cinematografico, del linguaggio poetico, conoscenze, insomma. Ma conoscenze che un alunno viene chiamato a paragonare con la sua esperienza, in una sintesi personale e creativa, come volevano già le indicazioni del 2012, no? Quando si diceva che “i docenti dovranno pensare a realizzare i loro progetti educativi e didattici non per individui astratti, ma per persone che vivono qui e ora, che sollevano precise domande esistenziali, che vanno alla ricerca di orizzonti di significato“. O come ancora richiedono le linee guida, “l’azione didattica non può limitarsi ad una prospettiva limitatamente disciplinare; i contenuti, proprio per abituare gli alunni a risolvere situazioni problematiche complesse e inedite, devono essere caratterizzati da maggiore traversalità ed essere soggetti ad un’azione di ristrutturazione continua“.
Non è che quando sono state scritte queste parole il ministro avesse in mente quel professore? Non è allora che tutta la fregola rivoluzionaria che anima molti docenti deve confrontarsi davvero con quello che di autentico si fa e si dice nella scuola? Per inciso, so che quel vecchio professore ha anche realizzato un filmato con la sua classe: una specie di lezione semiseria sul metodo di studio e sull’utilizzo del libro di testo.
Con tanto di video girato dagli alunni, con tanto di alunni che interpretano libri, alberi e maiali nell’anno mille del cambiamento. Poi il film è stato montato, ridotto anche in una versione per il web, magari verrà pubblicato sul sito della scuola. Ma quante competenze, conoscenze, abilità e tutto il resto ci sono in gioco? Lui non ha scritto però una straordinaria programmazione nelle cui dieci pagine si indicassero finalità, traguardi, obiettivi, competenze raggiunte; in cui si dicessero tempi e modalità: questo fa quello alle 10, mentre quello fa questo alle 11. Se si metteva a fare quella carta lì, forse non faceva in tempo a correggere i temi o a preparare il commento per Montale e Leopardi, o a verificare se c’era su Youtube Gassman o Carmelo Bene che leggevano Leopardi. C’è un film da vedere però; c’è un tema da leggere o un commento, un testo esplicativo, un lavoro di riflessione sul proprio lavoro da parte di alunni e insegnanti. Magari lui non lo sa — io sono sicuro che lo sa, ma non gliene frega niente di farlo sapere, contrariamente a tanti altri che non fanno altro — ma ha fatto cooperative learning, problem solving, modeling, coaching e scaffolding e pure, ma sì, anche fading. Ma non l’ha detto.
Lui dice spesso una frase che non sa più nemmeno di chi sia, al punto che crede sia sua: non c’è niente di più contemporaneo di ciò che è classico, dice. Chissà se, per concedere un aumento in base al merito come si dice da un po’, i presidi guarderanno i film, i temi, i commenti di questa gente che non ha bisogno oggi di fare la rivoluzione, perché ha sempre fatto ciò che di rivoluzionario ed autentico anche oggi è richiesto. O se invece misureranno la quantità di scartoffie prodotte da altri, che copiano di qua e copiano di là, mettono insieme una programmazione in linea con guide e indicazioni e non guardano in faccia nemmeno gli alunni. Mica perché sono cattivi, ma perché non c’è più tempo.
Naturalmente non ho niente contro di loro: facciano pure quello che credono giusto, ma ogni tanto s’interroghino ancora, si domandino se forse non è il caso di guardare alle esperienze che quotidianamente sono vissute nelle classi. Di capire, forse, che quello che stanno cercando, sgomitando senza ragione, forse c’è già. E questo vale anche per chi, quasi pregiudizialmente, alza la bandiera della guerra a quella scuola che oggi rappresenta il vero buco nero dell’istruzione italiana. Sarà che quel professore è un mio amico, ma io credevo con lui che il problema fosse l’assenza di una vera scuola professionale e la ridicola abdicazione all’istruzione universitaria avvenuta con le lauree triennali e poi magistrali. Ma questa è un’altra storia. Chissà.