Caro direttore,
ho letto la riflessione in risposta a un mio articolo del professor Moreno Morani, direttore del Dipartimento di Scienze dell’antichità dell’Università di Genova,  e colgo questa occasione per ringraziarlo per il suo contributo al dibattito sulla cultura classica nei tempi moderni. 

Come sai, come docente e studioso di didattica ho un particolare interesse per l’istruzione classica e vorrei condividere con te e i lettori alcuni spunti che ritengo stimolanti.



Comincio dal convegno — svoltosi nello scorso maggio — dedicato a “Il futuro del liceo classico”, promosso dall’on. Elena Centemero, responsabile scuola e università di Forza Italia. “Dal seminario — ha detto la Centemero in un’intervista rilasciata a Eleonora Fortunato — è senz’altro emersa la necessità di modernizzare la didattica e l’offerta formativa, dando delle curvature anche negli ambiti giuridico-economico, artistico, linguistico, comunicativo, ma anche aprendo a metodi come l’Ørberg, che si sperimenta al liceo Galvani di Bologna (il latino e il greco vengono insegnati come fossero lingue moderne, ndr) oppure coinvolgendo i ragazzi nei laboratori teatrali dell’Inda come fanno al Tasso e al Convitto di Roma”.



In un gremitissimo convegno tenutosi presso l’Università di Udine dal titolo “Lingue antiche e moderne dai licei all’università” nel 2012, Guido Milanese, ordinario nell’Università Cattolica di Milano, evocava, polemicamente, “quella che da dieci anni sembra l’unica domanda didattica possibile in merito al latino: Ørberg sì, Ørberg no”. 

A distanza di quasi cinquant’anni dalla pubblicazione del manuale di Hans Ørberg (1954 e 2010), diffusosi in Italia grazie al lavoro di Luigi Miraglia, le risposte da parte dei docenti sono ancora in buona parte polarizzate fra entusiasti sostenitori e fieri oppositori. 



Ma lancerei l’appello di non andare a mescolare, con il ciato di topoi didattici, la lutulenta polemica tra tifosi del metodo induttivo-contestuale e del grammaticale-traduttivo. Ma a che serve? Ci sono, fortunatamente, negli ultimi tempi, altre proposte più innovative di un metodo che è stato ispirato al manuale English by the Nature Method di Arthur M. Jensen, linguista e allievo di Otto Harry Jespersen (1860-1943), uno dei maggiori rappresentati del movimento della Riforma. Insomma,  Ørberg non ha “inventato” nulla di nuovo!, ma più prosasticamente ha applicato i principi del manuale con un lavoro certosino alla lingua latina durante un periodo di congedo stipendiato concesso da Jensen, quando fu assunto negli anni Cinquanta presso la sua scuola di lingua inglese di Copenhagen.

Nel convegno promosso dalla Centemero non era ancora giunta la novità del metodo neocomparativo, che suscita grande interesse e sta avendo ampia risonanza nelle scuole e nei convegni: mi permetto di segnalare che qualche mio contributo sul metodo neocomparativo è stato pubblicato in riviste internazionali di rango accademico o professionale. 

Uno dei più recenti orientamenti nella didattica della lingua latina, infatti,  è l’insegnamento della grammatica secondo il metodo neocomparativo o approccio comparativo: tale approccio, come è stato scritto, “si basa su alcuni presupposti fondamentali: in primo luogo, compara le lingue per arrivare ad individuare le proprietà comuni a tutte (principi) e le aree di differenziazione (parametri). In questo modo è possibile raggiungere due obiettivi immediati: da un lato quello di descrivere in modo formale il maggior numero di fenomeni con il minor numero di regole e premesse teoriche e, dall’altro, quello di sviluppare la consapevolezza interlinguistica, avendo una riflessione esplicita sulla grammatica e favorendo l’attivazione di processi mentali paralleli a quelli coinvolti nella competenza nativa di una lingua”.

“Ci si potrebbe chiedere perché — scrive Renato Oniga, ordinario dell’Università di Udine rivolgendosi idealmente a chi insegna lingue antiche — questo metodo neocomparativo  debba essere applicato anche alle lingue classiche. E non sia sufficiente limitarsi alle lingue moderne. In realtà, l’obiezione va rovesciata, perché è evidente il vantaggio di applicare uno stesso metodo alle lingue antiche e moderne, come in effetti avveniva già nel periodo della vecchia grammatica comparativa, che veniva usata per le lingue germaniche e romanze non diversamente per le lingue classiche. Ma il vero motivo è un altro: uno degli obiettivi più qualificanti nello studio scolastico delle lingue antiche dovrebbe essere non tanto l’accumulo di nozioni minute per diventare filologi classici, ma lo sviluppo di una cultura linguistica superiore, con ricadute positive sulla conoscenza consapevole dell’italiano e delle lingue straniere”.

Per l’insegnamento della lingua greca antica è stato elaborato il cosiddetto metodo Polis: esso è un metodo eclettico, “inventato” da Christophe Rico, linguista francese e autore del corso Polis: parler le grec ancien comme une langue vivante uscito nel 2009 in Francia e in Italia nel 2012. Il metodo Polis potrebbe essere annoverato tra i metodi “naturali” o — come si direbbe oggi — “comunicativi”, dove l’uso attivo della lingua greca in situazioni comunicative ha una parte significativa: un uso orale più moderato della  lingua greca è prevista dal manuale Ancient Greek Alive di Paula Saffire e Catherine Freis del 1999, dove vengono  impiegati testi, combinati con schemi grammaticali e con esercizi di produzione orale. Il fine non è lo sviluppo della competenza attiva della lingua greca, ma l’assimilazione di strutture grammaticali mediante la ripetizione orale.  

A uccidere le lingue morte sono, con maggiore frequenza di quanto il più ingenuo potesse aspettarsi, gli stessi insegnanti che, invece di aggiornarsi in modo serio, continuano a prolungare con putrescenza stantia la solita tiritera! Perinde ac cadaver che poi sarebbe la lingua latina…

A leggere in rete (ma sarebbe bello essere smentito) quanto è stato discusso in quel convegno presso la Camera dei deputati, non è emersa la recentissima iniziativa della Certificazione linguistica latina che, avviata in Liguria dal 2012 proprio dall’Università di Genova con il patrocinio della Consulta Universitaria degli Studi Latini,  è stata — almeno per ora — per l’a.s. 2013-2014 a Milano ed estesa per quest’anno a tutta la Lombardia.

Quest’iniziativa ha avuto un ottimo riscontro di docenti e studenti e bisogna riconoscere onore e merito agli Usr di Liguria e Lombardia per aver fornito il sostegno istituzionale a questo progetto nato spontaneamente dalla passione e dalla dedizione di tanti docenti: tutto si è svolto senza nessun aggravio ed onore per le casse dello Stato. Un progetto che sta nascendo dal basso, da chi ogni giorno fa rivivere un mondo antico attraverso il suo codice di “eterna sopravvivenza” ovvero il testo scritto: vox populi vox Dei?

Il 30 maggio 2015 è stata pubblicata su Avvenire un’intervista a monsignor Daniel B. Gallagher, latinista dell’Ufficio lettere latine della Segreteria di Stato Vaticana e curatore di @Pontifex_ln, il profilo Twitter del Papa. 

Nell’epoca dei social network e dei nativi digitali, vengono tradotte in latino le frasi del Pontefice (successore di un uomo poco istruito come Pietro). Tra i “consumatori” dei tweet papali (latinisti, docenti, studenti eccetera) e l’abbreviatore apostolico in salsa moderna c’è un ludus: “Quando traduciamo la frase del Papa spesso ci ispiriamo a un grande autore classico. Quello che si collega al testo sulla base di una parola o del contesto della frase. Quindi traduciamo seguendone lo stile. La speranza è che i nostri lettori individuino l’autore e magari anche l’opera alla quale ci siamo ispirati e poi lavorino sopra la frase ponendola in varie forme, utilizzando casi diversi. Noi latinisti giochiamo su questo ed è un ottimo esercizio per chi vuole imparare”.

Nella parole del prelato c’è anche un riferimento alla scuola, “colpevole” di  continuare a insegnare la lingua latina in maniera troppo analitica: se non ci si sofferma troppo sui trabocchetti della grammatica latina, i ragazzi possono provare sincero interesse per il contenuto di testi che abbiano un significato per gli studenti di oggi. Un esempio è il seguente: presso il Liceo D’Azeglio di Torino gli studenti, in una sorta di esperimento, hanno “giocato” con brani tratti dalla traduzione in lingua latina di Diario di una schiappa (Jeff Kinney, 2007).

Si capisce, dunque, dallo schizzo qui tratteggiato, quanto sia ingarbugliata la matassa della didattica della lingua latina, nel contesto più ampio della institutio dei giovani di oggi, non più cittadini del mondo, ma di un villaggio globale, anzi globalizzato da culture imperanti.

C’è ancora molta confusione — quasi babelica — e si rischia di perdersi in un labirinto di luoghi comuni e anfratti di perplessità (o assurdità? Credo quia absurdum…).

Ha ragione, dunque, Morani ad affermare con forza il valore spirituale e ideale che hanno l’insegnamento delle lingue classiche come latrici di verità e dubbi umani, capaci di renderci consapevoli della nostre radici, in modo particolare nel nostro Paese.

Prima di tutto e anzi tutto, si parta da una seria formazione dei docenti all’inizio della carriera e dell’aggiornamento dei docenti in servizio, non solo sui contenuti linguistici, storici, filologici e letterari, ma anche sulle metodologie e aspetti più squisitamente pedagogici.

Poi ci dovremmo tutti autoinvitare in un convivio di memoria platonica e dantesca per confrontarci, onde trovare soluzioni di compromesso senza compromissione, per ravvivare l’amore delle lingue antiche nei giovani che ancora sono capaci di mettersi in ascolto — senza dover necessariamente parlare in latino — delle voci lontane degli autori antichi. Diceva Machiavelli:  “Mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui”, ovvero la sapientia veterum.