Una volta li chiamavano “esami di maturità”: adesso, pomposamente, si chiamano “esami di Stato”, e qualcosa vorrà pur dire…
Misura davvero quest’esame la “maturità” dello studente? Certifica davvero le sue competenze in vista della sua entrata nell’ormai mitico — e sempre più difficilmente raggiungibile — mondo del lavoro? Oppure, più banalmente e ribassando l’orizzonte delle attese, uno studente che abbia superato l’esame di Stato può dirsi capace di padroneggiare i fondamenti di quella cultura che lo può rendere un cittadino attivo e responsabile?
Sospendete momentaneamente la domanda (e, occorre dirlo, il senso di incredulità), e immaginate di calarvi, commissario neo-nominato, inesperto e volenteroso, nella vostra prima maturità, pardon, nel vostro primo esame di Stato. Il panorama, credeteci, è degno di un racconto buzzatiano, uno di quei racconti che tolgono il fiato e non solo per il caldo asfissiante che sarete costretti a sopportare nelle aule delle nostre scuole, ma per l’angoscia esistenziale e la sensazione di de-realizzazione che potrete ricavarne.
Veniamo alle prima prova scritta, comune a tutti gli indirizzi di scuola. La cosa più divertente è che gli studenti, di solito, anche quelli del liceo classico, evitano come la peste la tipologia A, perché imperniata sull’analisi di un testo letterario, un esercizio che — dopo soli tre anni di studio della letteratura italiana e analisi dei testi (come sarebbe auspicato, ma non tutti fanno) — coglie evidentemente i nostri candidati impreparati. Eppure, se riuscissero a valutare con oggettività la consegna, si renderebbero conto che si tratta della traccia più facile, specialmente da qualche anno a questa parte: nel 2012 venne selezionata una prosa di Montale, nel 2013 un brano di C. Magris avente come tema il viaggio, quest’anno un passo da Il sentiero dei nidi di ragno di Calvino: in tutti i casi, l’analisi è guidata, da svolgersi per punti (aggirando quindi quell’enorme problema che sempre di più palesano gli scritti dei nostri studenti: la capacità sempre più scarsa di produrre un testo coerente articolando logicamente i contenuti e dominando i nessi logici e la punteggiatura), e solo l’ultimo di essi chiede di sviluppare un discorso di tono più generale avente un soggetto abbordabilissimo per lo studente: il viaggio nel 2013, il passaggio tra infanzia ed età adulta quest’anno.
Ma no, niente da fare; gli studenti diffidano della letteratura e si rifugiano massicciamente nella tipologia B (saggio breve o articolo di giornale), senza capire spesso la necessaria diversificazione di registro, tono, intento comunicativo, titolo e lessico, che implica il decidere di scrivere l’uno o l’altro.
Inoltre, per lo più, non appagati di aver scelto una tipologia testuale difficilissima (chi si offre di spiegare una volta per tutte come scrivere un articolo, fosse pure per il giornalino scolastico, azzeccato nel tono, breve, accattivante, magari che strappi anche un sorriso al lettore, sia uno dei compiti più ardui al mondo?), si impegolano in percentuali notevoli nello svolgimento di trattazioni di tematica tecnico-scientifica o economico-sociale, senza rendersi conto di un fatto fondamentale: scrivere è innanzitutto scrivere cose.
Ci saranno pure gli abbellimenti della forma, le figure retoriche, una più o meno spiccata sensibilità lessicale, eccetera, ma vogliamo dirlo una volta per tutte? Scrivere è raccontare in forma convincente qualcosa, e non stiracchiare l’aria fritta o raccattare il già sentito, il rimasticato, la chiacchiera da bar.
Per cui, che cosa ne può sapere un diciotto-diciannovenne dell’annoso problema, che so, della crisi economica e dei rimedi a essa? O della riqualificazione delle periferie cittadine? Ma no. I nostri impavidi — e un poco sprovveduti — maturandi, a volte, fanno il passo più lungo della gamba e, in assoluta buonafede, si lanciano in complicati elaborati, nei quali, se tutto va bene, ottengono il risultato di inanellare una serie di corrette, anodine, educate banalità: insomma, viene da dire, ma se il problema dell’integrazione dei profughi e degli immigrati, la crisi economica galoppante, il degrado delle periferie, sono problemi non risolti dai grandi organismi politici ed economici nazionali e internazionali, li deve risolvere un maturando nello scritto di italiano?!
Apriamo e chiudiamo immediatamente la parentesi “correzione delle prove scritte”: perché veramente, o miei commissari, qui si parrà vostra nobilitade. E anche la vostra resistenza fisica. E purtroppo, si capisce subito anche quali materie, magari inopinatamente e solo l’ultimo anno, sono state verificate solo oralmente o con domande a risposta chiusa: non solo dalla qualità delle risposte degli studenti, dalla loro scrittura, dalla capacità di utilizzare nessi logici e di essere esaurienti, ma anche dalla capacità dei commissari di correggere con obiettività e un minimo di senso della sintesi.
E così, come sempre accade, dato che la correzione è collettiva, molto spesso, in ore e ore di arroventate correzioni e discussioni, dibattiti e questioni di lana caprina, si ricordi, il giovane commissario, di adottare il sistema del sapiens stoico: mantenere la calma, aspettare quieto (qualche sessione di correzione si prolunga talora tanto da far configurare il reato di sequestro di persona), e non ribellarsi al destino crudele e ostile, nella consapevolezza che fata volentem ducunt, nolentem trahunt (i fati guidano dolcemente colui che li asseconda, trascinano a viva forza chi si oppone loro).
Di prova in prova siamo arrivati agli orali. E qui, non c’è che dire, le soddisfazioni sono tante, soprattutto perché il candidato deve presentare un lavoro personale (la cara, vecchia “tesina”) che sviluppi una ricerca, che dia conto di un’esperienza formativa per lo studente nell’ultimo anno di scuola, e così via. Detto così, suona molto bene, vero?
Attenzione! Vi troverete dinanzi a un’autentica selva di orrori. A nulla valgono le raccomandazioni dei professori (curare la bibliografia e la sitografia, sviluppare un argomento specifico e di portata non troppo vasta, non cercare collegamenti forzati con altre materie, sottoporre il testo alla revisione dei docenti interni prima di presentarlo alla commissione): per un maturando solerte, ce n’è sempre uno (e se sarete fortunati, anche due o più: tutta esperienza!) che presenta lavori sommari, testi scaricati tali e quali da Wikipedia (non sapete quanti!), pseudo-lavori dal titolo che farebbe tremar le vene e i polsi a un individuo ragionevole (“Pirandello”; “Leopardi”; “Il Romanticismo”), elaborati senza bibliografia, collegamenti stiracchiati, o, addirittura, tesine dall’argomento assai propizio ai tempi estivi in cui si svolge l’esame: “Il gelato” (Giuro! L’ho visto!); “Il mare”, eccetera.
Non mancano dei grandi classici, sempre presenti: “Il suicidio” (il programma del quinto anno, tra Foscolo, Leopardi, Schopenhauer, Seneca eccetera; non aiuta, ne conveniamo), “Bello e Sublime”; “La Femme Fatale“; “Amore e Psiche” (un grande classico); “La musicoterapia” (molto gettonata nell’indirizzo delle Scienze Umane, insieme alla cromoterapia, alla pet–therapy, alla valenza educativa della favole, eccetera); oppure, troviamo di tutto un po’: dai neuroni-specchio, ai fumetti, ai Pink Floyd; diffusi sono anche — specie tra le femminucce — i lavori che riscoprono la “valenza straordinaria” di figure che hanno rivoluzionato la storia del genere femminile, come Coco Chanel (l’abito fa il monaco?), o Marylin Monroe e Audrey Hepburn; e nulla ci sarebbe da eccepire, se ogni argomento fosse trattato con rigore e completezza (un tratto che spesso latita), in una veste grafica curata (magari con il rispetto delle più diffuse convenzioni per impaginazione e bibliografia), e presentato in una forma che rifuggisse la fiera dell’ovvio, e soprattutto, con un linguaggio che, al netto della naturale emozione che ogni maturando prova all’inizio del colloquio (giustificatissima, che diamine: è il primo vero esame sostenuto dopo quello di terza media, e questa volta davanti a una platea per la maggior parte costituita da commissari esterni) fosse minimamente corretto e curato nel lessico.
Ahimè. La tipologia media di discorso con cui il maturando si presenta, nei primi dieci minuti del colloquio, è spesso questa: “Nel mio lavoro porto (sulle spalle?!) il sublime/ il suicidio/ Mussolini giornalista / La Grande Guerra/ (immaginate un argomento a vostra scelta). Per storia ho inserito la Marcia su Roma, per filosofia ho messo il Superuomo, per italiano mi sono collegato a D’Annunzio”, in una sorta di minestrone che procede per libere associazioni e punti di tangenza spesso minimali, secondo l’aurea logica consacrata dal gioco enigmistico noto come “Il Bersaglio” (provare per credere).
Per esperienza personale, posso testimoniare che, anni fa, una ragazza, intenzionata a portare (come amano dire gli studenti) una tesina sui “Serial killer”, è stata con fatica dissuasa dal collegarsi con la figura di Adolf Hitler. Quale l’attinenza? Secondo la ragazza era evidente: “Ma profe! Ne ha uccise tante di persone Hitler!” (sic!).
E dopo la tesina, ecco l’orale. Ma che non vi venga in mente se, che so, il candidato porta (sic!) la prima guerra mondiale e cita nel suo lavoro Ungaretti, di chiedere l’analisi dettagliata di una delle liriche dell’Allegriache pure la tesina riporta; e guardatevi bene anche dall’essere così pedanti da osare interrogare un candidato che parla della seconda rivoluzione industriale in ordine al contemporaneo Congresso di Berlino o alla politica di Bismarck. In compenso, scoprirete tante tante cose: sarete edotti sulla poetica di Pascoli in “ICS Agosto” (non ho ancora sentito “Per Agosto”, ma ci arriveremo….), lirica nella quale si racconta “di una colomba che tornava al nido con un ramoscello di ulivo in bocca” (e il commissario gela il candidato: “Guarda che ti stai confondendo con la colomba di Pasqua”…); scoprirete che “Nietzsche si ispira nella Nascita della tragedia ai tragici greci Sofocle ed Erodoto” (?!); che per “Marzo 1821” Manzoni si è ispirato alle Cinque Giornate di Milano (si dice ancora, no? È successo un ventuno….); che il matrimonio fra Renzo e Lucia viene celebrato “da un prete” (che pretesa, ricordare anche il nome!); che l’esercito di Hitler era “piuttosto belligerante” e i nazisti erano “abbastanza nazionalisti”; e saprete tutto sulla “notte dei coltelli” e sulla figura dell’èsteta (pronunciato proprio così: sdrucciolo) in D’Annunzio.
Insomma, dopo cotanto bagno di cultura (perché un Sessanta non si nega a nessuno: e peccato che in Italia il titolo di studio abbia ancora valore legale), viene da rimpiangere l’esame di maturità della riforma Gentile: un esame duro (andate a rivedervi la percentuale di respinti, e capirete), ma, quello sì, dalla valenza formativa e, nella sua durezza, anche pedagogica, ancora valide; e soprattutto, un esame che non si concludeva con un voto secco e netto, ma con voti graduati materia per materia, che davvero davano al candidato e alla famiglia la percezione precisa dei reali risultati ottenuti.