Il 30 giugno non faceva caldo come nelle ultime settimane, ma nelle scuole italiane c’erano ancora collegi docenti arroventati che cercavano rifugio presso i locali del seminterrato — chi li ha — o nelle aule del piano terra dove le finestre aperte permettevano la circolazione dell’aria e l’uscita delle parole in libertà dei professori che avevano già la testa al mare o ai monti.
Da molto tempo di questi collegi si erano perse le tracce, ma negli ultimi due anni, a causa di alcuni impegni che non possono essere protratti oltre, come l’approvazione del Pai, soprattutto nelle scuole primarie e secondarie di primo grado, elementari e medie, per intenderci, l’ultimo giorno di scuola ha visto il proliferare di questi appuntamenti.
Certo, se una scuola si fosse munita per tempo del Pai questo non sarebbe successo, ma non sempre è facile redarre un documento così complesso. Molti, in verità, ricordano delle patatine con questo nome, e dunque è bene che si spieghi da subito invece di cosa si tratta. Nella scuola italiana, come recitano le linee guida e le diverse indicazioni programmatiche, particolare rilievo è dato alle attività inclusive: non si parla più di integrazione di alunni con disabilità o problematiche particolari, ma si parla di didattica inclusiva per persone con caratteristiche diverse che vanno tutte sotto il nome di Bes, bisogni educativi speciali, categoria dentro la quale troviamo alunni con problemi gravi di apprendimento, una volta e forse ancora oggi Dva (alunni diversamente abili), tutelati dalla legge 104; alunni con disturbi specifici di apprendimento, Dsa, come disgrafici, dislessici, discalculici; alunni con temporanei disturbi di vario genere nell’apprendimento, Bes temporanei.
Insomma, per tutti questi e altri alunni la scuola deve istituire una serie di procedure e di attività che garantiscano il successo formativo. E già qui ci sarebbe da discutere: garantire il successo formativo? Tutt’al più la scuola dovrebbe garantire di avere messo in atto tutte le strategie per favorire questo successo; ma come ogni educatore sa, nessuno può garantire il successo in un percorso di apprendimento e di educazione, perché all’interno di questo percorso esiste il rischio, così come in ogni attività umana. Ma procediamo: all’interno della scuola viene eletto un organo che si chiama Gli, gruppo di lavoro per l’inclusione che ha il compito di redarre il Pai, il piano annuale per l’inclusione che il collegio docenti deve poi approvare. Forse qualcuno si sarà già annoiato, ma non è colpa mia se la scuola è una specie di ginepraio di sigle e mansioni che sconcertano e qualche volta rimandano a tristi momenti della storia in cui le sigle in maiuscolo nascondevano terribili disastri.
Il Pai, registrati i bisogni educativi speciali presenti nella scuola con un’accurata indagine statistica, individua le criticità presenti nella programmazione, indica le modalità per incrementare le attività inclusive dell’istituto, suggerisce aspetti organizzativi che le favoriscono, individua necessità di formazione, incrementa i rapporti tra insegnanti di sostegno e famiglie, lavora per lo sviluppo di un curricolo inclusivo, progetta forme per l’acquisizione di risorse volte alla didattica inclusiva, elabora strumenti per lo screening in itinere sulla lettoscrittura, il calcolo e le conoscenze numeriche. Domanda: cosa fa allora la scuola? Che senso ha il Pof? Ah, ecco, bisogna spiegare anche questo: è il piano dell’offerta formativa, diciamo la carta d’identità della scuola. Ma se nel mese di giugno il Gli elabora il Pai, individuando addirittura le risorse da spendere e incrementare, cosa rimane da decidere e spendere al Pof? Sembra uno scioglilingua, ma purtroppo non è così: in maniera neanche tanto velata e surrettizia, con l’adozione del Pai a giugno vengono sostanzialmente indicate le linee didattiche di tutta la scuola per l’anno successivo, con l’indicazione di spesa di gran parte delle risorse.
A parte questo punto centrale di metodo, sorgono altre grosse perplessità: nella maggior parte dei Pai le attività inclusive sono ormai codificate, strutturate, irrigidite in una prassi che si ripete più o meno in ogni scuola. Gli alunni si screeningano — oh Dio, ma come parlano? — si codificano i loro problemi, si suggeriscono le strategie, appunto. E allora si parla di strumenti compensativi e dispensativi, di utilizzo di Lim e computer, di facilitazioni e riduzioni, di tempi e di domande aperte e verifiche orali: tutto ormai delineato e preordinato per il raggiungimento del successo formativo.
La scuola non è in grado di esercitare una creatività maggiore rispetto a situazioni diverse e complicate? Il suo obiettivo è davvero un successo formativo ad ogni costo? E’ sicuro che inscatolare un alunno dentro una definizione e un percorso quasi obbligato costituisca per lui un vantaggio? Non si generano forse così troppi ragazzi ai quali si fa credere che la vita faccia sconti per tutta la sua durata? A dire la verità le domande potrebbero continuare all’infinito, ma in merito a questa cosa del Pai e ai risvolti che può avere sulla vita della scuola, risulta abbastanza chiaro che un collegio docenti può rischiare di abdicare al suo ruolo di indicare le linee didattiche, lo stesso preside può rischiare di vedersi sottrarre le competenze per l’individuazione dei bisogni della scuola e del reperimento delle risorse necessarie per soddisfarli. Ma quel che più è preoccupante in tutta questa vicenda è che forse viene intaccato il vero cuore del lavoro educativo e didattico: l’alunno cresce dentro un rapporto personale con l’insegnante, con gli insegnanti del suo consiglio di classe.
E’ qui, dentro un rapporto stretto e quotidiano che devono essere fatte valutazioni e elaborate proposte, per gli alunni in difficoltà, certo, ma anche per coloro che invece possono sviluppare abilità ed eccellenze, attraverso un lavoro davvero inclusivo, di tutti e per tutti. Probabilmente, se fosse presentato prima del 30 giugno, molte di queste questioni avrebbero tutto il tempo di essere affrontate; ma buttato lì nell’ultimo giorno utile non rischia questo piano di legare mani e piedi alla scuola, ai suoi protagonisti veri? Protagonisti che dovrebbero sì avvalersi degli strumenti messi in campo dal Gli, ma non vedersi sostituiti da questo.
Protagonisti che all’interno del loro consiglio di classe elaborano anche strategie innovative, sanno individuare con creatività strumenti diversi per affrontare problematiche di ragazzi con bisogni speciali: ad esempio, è sempre vero che devono essere ridotti i contenuti da studiare? E’ sempre vero che chi ha problemi di scrittura debba essere esonerato da alcune prove? E’ sempre vero che la tecnologia sia una soluzione? Non è forse vero, invece, che un’attività teatrale può contribuire a ricostruire autostima ben più di un voto regalato? Non è forse vero che la scrittura di un diario sotto la guida di un insegnante, aiutando a dare un nome alle cose, alle paure, ai disagi, ai sogni, è in grado di ricostruire un’identità fragile e smarrita? Non è forse vero che una lezione sul metodo di studio o una pagina di storia o scienze svolta con passione sa comunicare agli alunni una possibilità anche per i ragazzi? Ecco: è la presenza di insegnanti così che consente agli alunni di sentirsi inclusi.
Non si tratta, si badi bene, di contrapporre tecnologia e umanesimo. E’ ormai un dato inconfutabile, di cui persino la legislazione scolastica, almeno a parole, si è resa conto: la tecnologia non basta. Così come non bastano gli screening o i Pai. Viene voglia di ricordare e parafrasare una vecchia canzone di Franco Battiato: non servono più ideologie e strategie, ci vuole un’altra vita. Ci vuole libertà, desiderio di rischiare, di mettersi in gioco: se il Pai diventa uno strumento che consente agli insegnanti di riformulare e sostenere le loro proposte, allora è davvero utile. Facciamolo diventare così, allora.
Altrimenti è un altro brutto affare di cui liberarsi velocemente — buona scuola sì, buona scuola no — come tutti gli strumenti che smettono di essere strumenti e diventano un fine, come purtroppo nella scuola capita spesso.