All’inizio di luglio l’Espresso proclamava con una certa enfasi il progredire tra i giovani italiani di un processo di secolarizzazione che dovrebbe condurre tutto il Paese ad “una società più laica ed emancipata”. L’annuncio dell’avanzante “morte di Dio” tra i giovani, di questa epocale trasmutazione dei valori che li vedrebbe protagonisti, si basa tutto sul conforto di dati statistici in realtà già noti da tempo: il numero crescente degli studenti e delle famiglie che decidono di non avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica; la sensibile diminuzione delle iscrizioni nelle scuole paritarie cattoliche; un certo calo nelle richieste delle famiglie per i sacramenti dell’iniziazione cristiana — battesimo soprattutto — da impartire ai propri figli. Infine, l’articolo cita, come argomento inconfutabile e decisivo, i risultati di un’inchiesta dell’Aied su un campione di giovani tra i 13 e i 19 anni dai quali risulta che circa un terzo degli intervistati sembra non volerne più sapere di pratiche religiose, fede e cose di questo genere.



Se in un certo senso è vero, come sosteneva Baudrillard, che “le statistiche sono una forma di realizzazione del desiderio, proprio come i sogni”, si potrebbe stare al gioco dell’Espresso ribattendo che 8 studenti su 10, anche nell’anno scolastico appena trascorso, continuano comunque a frequentare l’insegnamento della religione. Largamente maggioritaria (l’80%) è pure la percentuale di chi ancora battezza i figli entro i primi 7 anni di vita e statisticamente trascurabile (2,7%) quella di chi rimanda il battesimo oltre i 7 anni. In merito all’evidente crollo delle iscrizioni presso le scuole paritarie, si potrebbe obiettare che sulla scelta gravano fattori non solo ideali o religiosi, ma condizioni economiche gravose che rendono difficile se non impossibile sostenere rette quasi sempre molto alte. Infine, la ricerca dell’Aied sembra un tantino squilibrata “sul nord” (61%) e scarsamente rappresentativa. 



Dunque, guardando i dati da un opposto punto di vista e capovolgendo le cifre, si potrebbe dire che il cattolicesimo gode ancora di buona salute tra i giovani italiani, altro che secolarizzazione. 

Ma è proprio così? Letti in questo modo i dati ci dicono forse di una vivacità dell’esperienza cristiana tra i giovani? Gli adulti che passano molto tempo con i giovani con apertura ed intelligenza, che siano credenti o no, avvertono che il problema è un po’ diverso e più profondo di ogni schematizzazione ideologica. 

A volte i film ci aiutano a comprendere, in poche immagini o battute, certi orientamenti della società più che le ricerche sociologiche o le statistiche. Ad esempio, nel recente film italiano Se dio vuole (2015, regia di E. Falcone) divertente e per niente affatto superficiale, una famiglia romana, alto borghese e praticamente atea, viene ridestata alla domanda sul senso ultimo dell’esistenza dalla dichiarata ed imprevedibile scelta di uno dei figli, Andrea, di seguire la vocazionale sacerdotale, abbandonando gli studi. Particolarmente esilarante e commovente è la descrizione del tentativo dell’altra figlia, Bianca, di comprendere la strada imboccata da Andrea perché è affascinata dalla letizia con cui il fratello vive la sua scelta. 



Bianca, che è sempre stata ritenuta in famiglia una ragazza vuota, poco intelligente, senza valori esistenziali e passioni reali — come spesso gli adulti considerano sbrigativamente i giovani — non avendo mai ricevuto un’educazione “religiosa”, trova invidiabile l’opzione di Andrea perché lo vede felice e cerca come può di darsi risposte da sola, ricorrendo alla lettura del vangelo e alla visione di un film (il classico Gesù di Nazareth di Zeffirelli) per poter vivere anche lei come vede fare al fratello, anche se il suo impegno solitario la porterà a seguire una religiosità più new age che cristiana.

Ecco, secondo me i giovani italiani, sono un po’ tutti nella stessa condizione di Bianca. Che scelgano o no di frequentare l’ora di religione, che si dichiarino praticanti o no, atei o fedeli, i giovani sono ugualmente “vittime” di un processo di secolarizzazione già consumato e profondo, che non ha soltanto reso incomprensibile il cristianesimo ai più — questo sarebbe il minimo — ma ha generato in loro una difficoltà enorme a rendersi conto delle evidenze ed esigenze fondamentali dell’umano. Questa è, in gran parte, la causa della problematicità di rapporto con la realtà e con gli adulti che i giovani vivono, non la mancanza di laicità e di emancipazione. 

Tuttavia, questa oscurità del cuore dei giovani non è così totale da impedire che esso rinasca in un incontro in cui possano intravedere un’umanità realizzata e, per questo, affascinante. Se molti giovani abbandonano l’insegnamento della religione è forse perché non incontrano questo, ma solo una ripetizione di discorsi etici che in fondo possono trovare anche altrove senza il gravoso fardello di un Dio in cui credere. Se gli altri, la maggior parte, ancora frequentano la scuola di religione, è magari perché continuano a dar credito al cristianesimo — che ritrovano come un deposito della tradizione e che non conoscono più — di poterli aiutare a scoprire chi sono, se veramente vale la pena di essere stati messi al mondo oppure no e come va affrontata l’esistenza. 

Dopo gli esami di maturità (preferisco chiamarli ancora così) una mia alunna mi scriveva ringraziandomi “per tutte le lezioni, per tutte le discussioni, per tutte le volte in cui mi ha aiutato a capire di più, ad andare nel profondo delle questioni, “fino all’essenziale della vita”. Riporto la cosa perché mi ha fatto meglio comprendere il senso della mia professione e la domanda implicita nel cuore dei giovani che attende di essere presa sul serio. Perché la scoperta della maturità è che la vita è rapporto affascinante e positivo con il Mistero e, come dice un verso della canzone di De Gregori che chiude il film citato prima, c’è sempre “qualcuno che bussa” alla stanza della nostra vita. Basta essere attenti.