“Me luridus occupat horror”, un lurido orrore mi riempie. Erano queste parole di Ovidio che mi rimbalzavano di continuo nella testa mentre ero impegnato in quel buffo o tragico gioco di ruolo che sono gli esami di Stato con cui si conclude il ciclo della scuola secondaria. Per la prima volta in tanti anni di insegnamento (scherzi della sorte) li ho vissuti da membro interno. E’ stata un’esperienza utile, per certi versi, e devastante al tempo stesso. Provo a parlarne a mente fredda, a bocce ferme, ora che l’ho digerita.



Di solito, a botta calda, ne parlano i commissari “esterni”, lamentandosi degli strafalcioni, dell’impreparazione dei candidati, e dei mezzucci con i quali gli “interni” cercano di aiutare i propri ragazzi. Tutti compresi nel ruolo che il gioco gli affibbia, gli esterni dimenticano di essere a loro volta interni nelle loro scuole, dimenticano che gli interni che incontrano in commissione sono dei colleghi, cioè persone che quotidianamente vivono i loro stessi problemi, primo fra tutti quello di vedersi ridurre un lavoro di almeno tre anni con i propri studenti ad un misero 25% della valutazione finale e di dovere assistere ad un esame ridicolo (specialmente nella fase del colloquio) che in pochi minuti dovrebbe restituire la fisionomia intera di quel singolo studente.



Ne nasce, a volte (e a me quest’anno è capitato di constatarlo, con un senso di vero orrore, per la prima volta), una sorda battaglia tra interni ed esterni, degna appunto di un gioco di ruolo, dove gli interni difendono e gli esterni attaccano, gli uni contro gli altri armati, guardandosi addirittura in cagnesco, col pregiudizio più o meno taciuto che ci si vuole fregare a vicenda. Sorvolo sui risentimenti, le rivalità, le piccole vendette, i vari “me lo lego al dito” che si portano in dote i commissari di lungo corso. Piccolezze o bassezze umane, che però possono avere un peso anche determinante. Chi sia del tutto nuovo di questo gioco rimane prima sbalordito, poi si arrabbia, poi, visto che non ne vale neanche la pena, si adatta sperando che passi presto la nottata.



Ovviamente non funziona sempre così, le varianti del gioco sono molteplici, lo so, ma questo non tranquillizza, anzi, fa crescere la sensazione di disagio e fa nascere serie domande sul senso di tutto. Ma non è tanto sul meccanismo dell’esame di Stato (che mi auguro venga radicalmente modificato già dal prossimo anno scolastico) che voglio riflettere, quanto su qualcosa che mi ha dato davvero fastidio e che, devo confessarlo, mi ha anche un po’ messo in crisi.

Parto dalla frase che la presidente di commissione (anche lei troppo presa dal gioco di ruolo) ripeteva come fosse un mantra: “Non contano i contenuti, contano le competenze”. Una frase che distrugge in un attimo tutto il lavoro appassionante fatto proprio sui contenuti durante le ore di letteratura italiana e latina insieme agli studenti. L’esame, a partire da questo presupposto, diventa una specie di colloquio di lavoro, dove sto lì a valutare come ti esprimi, come scrivi, se ti scordi qualche volta la maiuscola, se in dieci minuti dieci d’orologio riesci a parlare del tuo percorso avendo avuto cura di metterci dentro tutto lo scibile umano (perché ogni commissario esterno pretende l’amo cui abboccare per cominciare il colloquio), con scioltezza, proprietà di linguaggio e puntualità… “Me luridus occupat horror!”.

Ora, indipendentemente dal preciso contesto in cui Seneca ha scritto la celebre frase “non vitae, sed scholae discimus” (ribaltata dalla vulgata), è chiaro che l’illustre filosofo può qui essere citato a meraviglia: non si studia più per la vita, ma per la scuola, o meglio, per un esame. Questo se permettete è orribile. L’aspirazione, o forse la pretesa, non so, è che nell’insegnamento entri la vita, quella vita che è meravigliosa, complessa, problematica ed è proprio per questo che i contenuti sono importanti. Lavorare sui versi di Dante non è la stessa cosa che lavorare sulla ricetta degli spaghetti alla puttanesca, ma non tanto per le diverse competenze che devi utilizzare, quanto per il diverso “cuore” che devi avere o che devi metterci. Un cuore che (ne sono convinto) ti servirà anche quando ti presenterai ad un colloquio di lavoro (che tu voglia fare il giornalista, il fisico nucleare, l’idraulico o il manovale).

Senza questo presupposto, senza questa radicata convinzione, si capisce anche perché il liceo classico vada in crisi: se contano solo le competenze, allora mettiamoci tutti a studiare con dedizione i quiz per la patente B, che, tra l’altro, “servono di più”. E infatti quando al termine del colloquio si rivolgeva agli studenti la domanda di prassi (“cosa farai dopo?”), ecco i risolini di commiserazione per quelli che rispondevano con entusiasmo giovanile “lettere”, gli “auguri” detti con cinismo, e invece i “bravo” di approvazione per chi si sarebbe dedicato a qualche strana disciplina del settore scientifico. E nessuno faceva eccezione, a cominciare dai commissari interni che insegnano lettere antiche o moderne.

Di qui la crisi, la sofferenza. Tutto per nulla, dunque? Io che lavoro sui contenuti, che mi appassiono con i ragazzi dietro ad un personaggio di Verga, o di Pirandello, che mi fermo in silenzio su un verso (o una parola!) di Ungaretti, che mi commuovo di fronte alle grandi domande di Leopardi e che invito i miei ragazzi a fare altrettanto, sbaglio tutto? 

Sono fuori dalla realtà? Dovrei buttare tutto nel cestino e misurarmi con la ricetta di cui sopra? Dovrei insegnare ai ragazzi non tanto a scoprire qualcosa di nuovo e di appassionante per loro, ma allenarli a ripetere una cosa qualsiasi in dieci minuti dieci con scioltezza e proprietà di linguaggio? Dovrei preparali al colloquio di lavoro?

Mi dibattevo in queste domande esistenziali, quando ricevo la gradita visita di un mio ex studente. Dopo cinque anni di liceo linguistico, la laurea in lettere, figlia di una vocazione ed una passione nate sui banchi di scuola e il desiderio di divenire un docente (insomma, uno di quei poveracci da commiserare). Tesi di laurea molto originale, con un confronto tra “La grande bellezza” di Sorrentino e “Il piacere” di D’annunzio. Lode e concessione della dignità di stampa. Non solo: apprezzamento e recensione di Giordano Bruno Guerri (di cui tra l’altro si è conquistato l’amicizia). Ma non finisce qui: da agosto questo neo dottore in lettere ha iniziato uno stage da aspirante giornalista presso un importante quotidiano nazionale, superando una selezione nazionale con prova scritta e famoso colloquio di lavoro. Colloquio al quale si è presentato mettendo in gioco quel “cuore” che ha educato a fatto crescere sui banchi di scuola. Quello che evidentemente conta davvero nei colloqui di lavoro e che interessa molto meno in certe prove d’esame di Stato.

Dalla realtà, dall’esperienza concreta, arriva allora un insegnamento e un incoraggiamento. La realtà mi aiuta a non rassegnarmi ad una particina nel gioco di ruolo autoreferenziale che la scuola corre sempre il rischio di diventare. Dalla realtà una speranza per tutti: si può continuare a studiare non per la scuola, ma per la vita.