Dunque in questi giorni si va definendo l’assunzione di più di 100mila insegnanti nelle scuole statali italiane. Dopo la legge 107, cosiddetta della Buona Scuola, dopo la prima assegnazione su base regionale e provinciale di alcune decine di migliaia di docenti, la Grande Assunzione arriverà a coprire i posti vacanti e garantirà anche un piccolo drappello di insegnanti extra per ogni istituto, per svolgere le attività di recupero o di arricchimento dell’offerta formativa che le scuole normalmente progettano. La ministra Giannini e il premier Renzi ostentano soddisfazione e dichiarazioni di svolte epocali, di inauditi investimenti per la “buona scuola”, di fine dell’era del precariato.



Ma una sana occhiata alla realtà può aiutarci a capire meglio l’entità effettiva del provvedimento. La fine del precariato è effettivamente una questione di giustizia. La precarietà del lavoro offende la dignità umana e impedisce alle persone, soprattutto ai giovani, di progettare in maniera umana la propria vita, compreso il sogno di metter su famiglia e il desiderio di avere figli. Questo non vale solo per gli impiegati statali: anche nel privato, per qualsiasi mestiere, occorre esigere tutta la stabilità che i tempi e il mondo del lavoro possano permettere. Per quanto riguarda la scuola, però, occorre rifuggire da un luogo comune: l’entrata in ruolo come garanzia di qualità del servizio scolastico. Ricordiamo che il ruolo statale è, in Italia, un impiego ultrastabile: licenziare uno statale, insegnanti compresi, da noi è pressoché impossibile. Se è vero che un insegnante con i nervi distesi dal fatto di non essere più precario può utilizzare energie emotive e culturali per lavorare meglio, è anche vero che il servizio scolastico statale in Italia è molto basso, il che significa che molti insegnanti, ottenuto il ruolo, si rilassano anche come qualità lavorativa. 



E poi, quand’anche fossero di ruolo, gli insegnanti devono ancora lottare con la burocratizzazione del loro lavoro (i registri da compilare non sono più su carta ma spesso sul computer, detto questo sono ancora tre o quattro e ogni sciocchezza che viene proferita in un ambiente scolastico va scrupolosamente e inutilmente verbalizzata), la proliferazione di impegni inutili derivati soprattutto dalla mentalità assembleare di origine sessantottina che continua a mantenere quei fossili dei decreti delegati, l’ostilità dell’opinione pubblica e delle famiglie che sta portando a una crescita esponenziale delle denunce e delle cause penali nei confronti di insegnanti, rei spesso solo di aver dato un voto che non piace alla famiglia dell’alunno. 



Contro questi pantani dell’attività docente nessun governo, compreso il presente, sembra aver capito e fatto nulla, anzi, le pastoie amministrativo-burocratiche in tutti i campi, compresa la scuola, promettono solo di peggiorare. La qualità della scuola migliorerà quando sarà meglio riconosciuta la professionalità dei docenti. 

Non si tratta in primo luogo di soldi: basterebbe lasciare agli insegnanti la possibilità di insegnare e valutarli obiettivamente, senza schemi o soglie prefissate centralmente — un’autentica sciocchezza —, e occorrerebbero dirigenti capaci di valorizzare il buono che c’è, non quelli di adesso, preoccupati soprattutto di non avere grane o di fare bella figura con attività spesso solo di facciata, per avere fondi e far carriera nei gradi della Pubblica Istruzione. 

Un’altra annotazione riguarda tutta l’enfasi data agli investimenti del governo sulla scuola: ma se i posti vacanti c’erano anche prima, cosa cambia dal punto di vista della spesa nel pagare un precario o un arruolato? Stupisce invece che non ci abbiano pensato i premier precedenti: con una spesa minima, questo governo si è garantito, se non tutti, la maggioranza dei voti dei 100mila in caso di elezioni probabilmente non lontane. In un paese come l’Italia in cui Prodi vinse le elezioni per 25mila voti, potrebbe essere molto utile.