Non sarà più possibile, dopo avere partecipato agli eventi del Meeting, pensare il mondo senza sentirlo pulsare di una nuova linfa che sgorga da territori inaspettati. Non sarà più possibile aprire davanti ai propri alunni una carta geografica dell’Europa, sia pure per insegnare (ma si fa ancora?) le capitali, i fiumi, le montagne, senza sentire vibrare i centri nervosi di un nuovo organismo che sta nascendo, sotto tante macerie, grazie ad un pugno di uomini che qua e là rompono barriere, schemi e confini, in nome di un orizzonte infinito che hanno incontrato, ben più grande dei loro limiti. Non sarà più possibile, già da domani quando si tornerà tra i banchi, parlare per esempio dell’Europa centro-orientale senza fare perno sull’Ucraina.



Non perché sia da contrapporre ad altri luoghi sorgivi, ma perché in Ucraina (e vicine Bielorussia e Lituania) un pugno di intraprendenti rifondatori stanno oggi tracciando nuove vie di dialogo e di comunicazione. Essi pronunciano il nome delle loro nazioni, delle loro città e dei loro popoli partecipando del destino della loro gente, in modo da fornire a noi, distratti e lontani, un criterio per abbracciare con interesse quello che altrimenti potrebbe sembrare un inerte reticolato di linee tra il mar Baltico e l’ambiente mediterraneo. La carta politica dell’Europa è stata disegnata più volte, drammaticamente, nel corso del XX secolo; era, all’inizio, l’Europa dei trattati e delle alleanze a garanzia dei confini. Ma, come disse qualcuno che cominciò a distruggere il mondo di ieri, i trattati sono carta straccia.



Oggi capiamo meglio che i confini sono garanzia di autonomia e di libertà, e lo possiamo capire, a maggior ragione, perché qualcuno ci testimonia che dentro quei limiti ci sono soggetti, persone, comunità che vivono i luoghi di appartenenza come circostanze per tessere rapporti e reti di amicizie. L’Ucraina, come nel Novecento la Polonia, ha molto da insegnarci da questo punto di vista. Storicamente e geograficamente è come se il baricentro dell’Europa si fosse spostato verso questa nuova cerniera da cui dipende molto delle nostre sorti future. Lo possiamo affermare, a prescindere da riflessioni di ordine geopolitico, perché vediamo all’opera una soggettività che usa il tema della dimora e della patria come espressione di una coscienza, piuttosto che come rivendicazione di uno spazio puramente fisico. Ancora, a proposito di spostamenti e revisioni delle proprie mappe mentali, come possiamo aprire una carta dell’Asia centrale senza fare perno sull’Afghanistan vissuto dal di dentro da Rula Ghani, moglie del presidente della repubblica islamica e impegnata, come ha testimoniato, a ricostruire un tessuto sociale e culturale che talebani, attentati e guerra hanno distrutto? Quel punto, quella soggettività definisce uno spazio di novità da cui dipende un intero territorio, magari un intero subcontinente.



È apparso evidente che tutto ciò che si muove attorno alla first lady afghana non ha a che fare con buone ma vaghe intenzioni di pace. Non c’entra affatto il pacifismo. In questione è proprio un altro cardine del mondo che possiamo contribuire a restituire alla sua identità di paese “bellissimo ma aspro” pensandolo appeso al filo che questa donna coraggiosa sta tessendo. Un filo che avvolge anche noi, che non ci rende estranei. Il Meeting insegna un metodo di lettura della realtà complessa nella quale ci muoviamo. È così per l’Iraq e la Siria dei martiri cristiani, per le periferie latino-americane, per il Giappone dei monaci buddisti del Monte Koya, che fanno capire cosa unisce nella diversità. La geografia umana del Meeting va in profondità, occorre partecipare per coglierla, andare oltre la superficie piatta delle cose.