La scuola, la scuola migliore possibile, deve esistere ed essere accessibile a tutti i bambini e a tutte le bambine, a tutte le ragazze e a tutti i ragazzi che vivono, per tempi lunghi o brevi, nel nostro paese.
Per poter rispondere al diritto di tutti — nessuno escluso, nessun bambino o ragazzo disabile, nessuna bambina non italiana, nessuna ragazza che passa solo qualche mese di vita in Italia — a una scuola, buona, di qualità è necessaria la collaborazione e l’integrazione fra i diversi soggetti che possono realizzarla e offrirla.
Il diritto all’accesso e il diritto alla qualità della scuola sono elementi fondamentali per garantire il diritto al benessere di tutti i bambini, le bambine, i ragazzi e le ragazze. Oggi, nei documenti internazionali ed europei che noi abbiamo sottoscritto, il benessere viene definito in senso ampio: oltre al diritto al soddisfacimento dei bisogni elementari e al rispetto in ogni sua forma, il benessere è anche la possibilità di realizzare tutte le proprie potenzialità, conoscitive, sociali, espressive, umane.
Non è dunque così importante discutere su chi gestisce una scuola, quanto e prima di tutto su come è questa scuola, che garanzie dà di accesso, di qualità, di rispetto, del benessere che promuove. A seguire, su come investire le risorse pubbliche nel modo più produttivo e razionale, su come valutare e verificare che vengano bene utilizzate e come sostenere verso un costante miglioramento le scuole che ancora non ce la fanno. Uscendo dalla contrapposizione — non dalla dialettica, che è utile a non adagiarsi mai e a cercare le pratiche e gli argomenti migliori — tra scuola statale e scuola paritaria, perché sia le scuole statali sia le scuole paritarie devono garantire tutti i diritti per tutti e solo allora possono dirsi pubbliche.
La consapevolezza che le risorse vanno conquistate e sono un bene prezioso può aiutare a superare steccati e reciproche diffidenze, perché rende evidente la necessità di uno sforzo comune soprattutto da parte di coloro che hanno più risorse economiche e culturali, affinché tutti possano esercitare il loro diritto in una prospettiva di sobrietà e sostenibilità.
Lo Stato ha il compito di delineare l’indirizzo, valutare e sostenere anche gli altri soggetti che contribuiscono ad estendere i diritti e accettano le regole, di promuovere un confrontino dialettico e anche competitivo. Senza steccati, consentendo e valorizzando esperienze innovative, orientate da metodi o fini specifici purché sempre riconducibili a una prospettiva comune di valori essenziali e di diritti di tutti.
Più sfaccettato, più incerto mi pare oggi ancora il discorso sul diritto di scelta delle famiglie: questa deve avvenire in modo trasparente e il diritto va riconosciuto quando non entra in concorrenza con la garanzia ai diritti essenziali e quando non è una scelta d’élite.
Oggi la scelta avviene anche nella scuola statale in modo più o meno sotterraneo: i genitori che hanno più strumenti culturali, i genitori che conoscono la scuola e la città scelgono, di fatto ma non ufficialmente le “sezioni migliori” nelle scuole dei propri figli. Qualche volta scelgono quelle scuole o quelle classi dove non vi sono bambini e ragazzi “stranieri” o difficili o disabili. Scelgono di inviare il proprio figlio in una scuola superiore che seleziona i ragazzi nell’accesso, quando l’uguaglianza di opportunità negli anni che precedono è in gran parte fittizia.
Se questo è il diritto di scelta allora non è giusto, perché i ragazzi e le ragazze devono tutti e sempre poter trovare l’occasione di appassionarsi alla conoscenza; ed è anche uno spreco di potenziali talenti e risorse intellettuali e umane che contribuirebbero al bene di tutti. La scelta/selezione è parte della qualità? Come e quando può essere garantita? Il “merito”, negli anni della scuola di tutti, non va soltanto riconosciuto: al merito, che è anche responsabilità, bisogna innanzitutto educare. Educare tutti.
Il sistema dei servizi e delle scuola per l’infanzia — che il bell’acronimo inglese ormai diffuso, ECEC, chiama Early Childhood Education and Care — sottolineando il binomio inscindibile di educazione/istruzione e di cura, può essere un esempio per tutta la scuola. E’ un sistema di buona qualità ed che è già in gran parte oltre il dibattito pubblico/privato.
Oggi la legge 107 propone — anche se pochi ne parlano — un sistema integrato di scuole e servizi per l’infanzia e può farlo perché le esperienze già esistono e sono solide e creative. Già la legge che istituiva la scuola dell’infanzia statale nel 1968 recitava che lo Stato sarebbe intervenuto dove non esistessero già altre scuole e le scuole che esistevano in molte regioni italiane erano nate nei Comuni e intorno alle Chiese. Nella mia città, Milano, ancora oggi il Comune gestisce l’85% di scuole dell’infanzia che lo Stato considera “paritarie” come quelle della Fism o di altre agenzie del provato sociale. Il sistema dell’accreditamento e del convenzionamento è in atto da anni con reciproci vantaggi anche se ancora con alcune difficoltà: dalle differenze troppo ampie tra gli innumerevoli contratti nel privato sociale, alle differenze sia nelle condizioni di lavoro tra le insegnanti delle scuole statali e comunali, alle differenze per le famiglie e i bambini dei servizi offerti in termini di calendario e orario in un’età nella quale i servizi e la scuola non possono non tenere conto dei tempi di vita e di lavoro dei genitori.
Reggio Emilia è stata un’apripista dell’integrazione così come la Provincia di Trento e altre città: i servizi si integrano già tra progetti, collaborazioni, esperienze di formazione comune. Si sono sviluppati dal basso, sia negli enti locali sia nei migliori consorzi di cooperative, strumenti di valutazione partecipata.
I nidi e le scuole dell’infanzia, ove esistono, hanno un’identità specifica e sono radicati nelle comunità e al tempo stesso esiste una rete e non sono insoliti i gemellaggi tra chi ha un’esperienza forte e chi ancora, in altre parti del Paese, inizia e arranca. E’ diffuso un sapere organizzativo e gestionale che utilizza le risorse, fino a oggi aleatorie, con consapevolezza e rigore. Resta ora da generalizzare l’accesso, soprattutto al Sud, con criteri creativi e sostenibili nell’erogazione e nella gestione delle risorse. I modelli virtuosi ci sono nello Stato, nei comuni, nelle scuole paritarie, nei servizi del privato sociale ed è necessario studiarli e proporli perché possano venire interpretati anche in altre comunità.
Le scuole migliori e i buoni servizi sono nicchie culturali e nicchie di sviluppo, luoghi nei quali i bambini e i genitori si incontrano e possono trovare sia il riconoscimento di ciascuno nella sua assoluta, straordinaria e specifica diversità, sia fini e significati comuni per condividere le responsabilità dell’educare pensando al futuro di tutti noi. In una scuola autonoma, autonomia e responsabilità sono il rischio e la garanzia della qualità.