All’epoca i ministri facevano dei brevissimi giri di giostra, poi scendevano. Alcuni — i più — risalivano, ma su un altro seggiolino. Così toccò a Sergio Mattarella succedere a Giovanni Galloni — sinistra democristiana fiorentina — sulla poltrona del ministro della Pubblica istruzione: era il caldo luglio 1989, entrava in carica il VI governo Andreotti. Nel frattempo, cioè il 27 luglio 1987, il Parlamento aveva deliberato di convocare una conferenza nazionale sulla scuola, dopo la sfuriata dell’anno precedente del ministro Franca Falcucci al Senato, nella quale la titolare di Viale Trastevere aveva dovuto prendere atto, a risposta, che né il Senato né la Camera avevano pensieri per la condizione della scuola italiana. Tanto che la Falcucci decise di bypassare una politica grigia e sorda e di avventurarsi per le vie lunghe, ma più controllabili, della riforma amministrativa del sistema nazionale di istruzione. 



Sono gli anni in cui matura il Progetto Brocca, dal nome del sottosegretario alla Pubblica istruzione, Beniamino Brocca, che coordinò la commissione ministeriale istituita nel 1988 dal ministro Galloni per la revisione del sistema didattico pubblico italiano. Si trattava, in particolare, di revisionare i programmi dei primi due anni della secondaria superiore, in vista del prolungamento dell’istruzione obbligatoria al sedicesimo anno d’età. La commissione concluse i suoi lavori nel 1992, essendo sopravvissuta a quattro ministri — Galloni, Mattarella, Gerardo Bianco, Riccardo Misasi — e avendo esteso il suo raggio di interesse anche al triennio delle superiori. All’Università, allora ancora fortunatamente separata dall’Istruzione, stava Antonio Ruberti, contro il quale incominciò ad accumularsi dal dicembre del 1989 il cosiddetto movimento della Pantera. Così detta non perché fosse particolarmente feroce; il nome era stato dato da un’ignara pantera, sfuggita a qualche zoo privato, che era stata avvistata sulla via Nomentana per non fare più ritorno. Era stata eletta a simbolo del nuovo movimento sfuggente, ubiquo, indomabile. La piattaforma aere perennius era: No all’autonomia-privatizzazione delle università.



Ma torniamo all’87. Perché una conferenza nazionale? Dopo gli anni dei tumulti, pareva che i decreti delegati del 1973/74 avessero conferito un qualche ordine istituzionale e amministrativo al funzionamento delle scuole. Ma il bilancio, alla fine degli anni 80, non era brillante: l’amministrazione, ben lungi dallo spalancare le porte ai soggetti protagonisti del sistema — gli studenti, le famiglie, i docenti, i presidi — li aveva tutti rigidamente rinserrati, scuola per scuola, nelle regole burocratiche di una democrazia amministrata dalle circolari. La partecipazione, figlia disciplinata dell’assemblearismo degli anni 60/70, stava consumandosi nell’anoressia. Gli unici ad approfittare dei decreti delegati, collocandosi sul crinale tra movimento e amministrazione, erano stati i sindacati, che avevano conosciuto una grande espansione di potere in ogni singola scuola. Dagli anni 80 si era così costituito il duopolio che a tutt’oggi governa il sistema: amministrazione e sindacati. 



Toccò dunque a Sergio Mattarella convocare e presiedere la conferenza nazionale sulla scuola, tenuta a Roma dal 30 gennaio al 3 febbraio all’Hotel Sheraton, mettendo insieme per quasi una settimana centinaia di insegnanti, presidi, funzionari, pedagogisti, opportunamente confinati fuori Roma per tenere alla larga la spelacchiata Pantera. 

Una relazione-tomo di 46 cartelle aprì, per bocca di Mattarella, la conferenza. Non è possibile dar conto qui delle analisi e dei temi che costituivano l’intero scibile scolastico dell’epoca. Due pilastri nella nebbia di parole monotone che si diffuse nella torpida platea si poterono tuttavia intravedere: l’autonomia e la valutazione. Il primo tema venne sviluppato rigorosamente da Sabino Cassese. Cassese affermava che non necessariamente doveva essere lo Stato a istituire le nuove scuole di cui c’era bisogno. L’istruzione era una funzione civile, non statale. Pertanto occorreva riconoscere ad ogni singola scuola l’autonomia didattica, organizzativa e finanziaria fino a poter assumere docenti direttamente e stipulare contratti con privati per ottenere fondi. 

Quanto all’apparato ministeriale, si proponeva che fosse drasticamente ridotto in tre anni, si suggeriva di dare un tempo di sei anni per rafforzare le singole istituzioni scolastiche e di prendersi altri sei anni per assestare e correggere. Nel 2002 il nuovo sistema educativo nazionale sarebbe stato a regime. 

Quanto alla valutazione, erano già in corso esperienze sugli indicatori di qualità, si stavano diffondendo anche in Italia il dibattito e le comparazioni. Il Cede di Visalberghi rappresentava l’avanguardia solitaria e boicottata di questo movimento per la valutazione. Saranno Luigi Berlinguer sull’autonomia e Letizia Moratti sulla valutazione a tentare di consolidare quei due pilastri. 

E Sergio Mattarella? Varata la riforma della scuola elementare (legge 148/1990), che raccoglieva e sintetizzava posizioni degli anni 80, indetto un concorso per l’insegnamento nelle superiori si dimise il 27 luglio 1990 dall’incarico di ministro insieme ad altri esponenti della sinistra democristiana — Martinazzoli, Fracanzani, Misasi, Mannino — per protesta contro la fiducia posta sul progetto di legge di Oscar Mammì che favoriva il riassetto televisivo, di fatto prendendo atto del duopolio pubblico-privato, Berlusconi essendo l’alfiere di quest’ultimo. Ma, appunto, siamo già entrati in una nuova era…