Uno spettro si aggira da tempo per l’Italia. Un vecchio spettro dai capelli oramai incanutiti, se i fantasmi potessero mai averne. E’ quello della scuola-azienda. Se qualcuno propone la valutazione delle scuole, degli insegnanti, dei presidi o la carriera differenziata per ruoli e stipendi degli insegnanti o nuovi poteri e responsabilità dei presidi, significa che vuole trasformare l’istituto scolastico in azienda. Cioè: privatizzare la scuola pubblica, subordinarla al principio del profitto, tornare alla “scuola di classe”. E questo perché, si intende, è succube del (neo-)liberismo selvaggio, il padre di tutti i fantasmi che si aggirano in Europa.



Il meno che si può far notare è che la conclusione — la privatizzazione della scuola pubblica — è assai più larga delle premesse — valutazione, carriere, potere dei presidi. Vero è che le analogie strutturali tra la forma-azienda e la forma-scuola sono numerose. Né potrebbe essere diversamente. L’azienda e l’istituto scolastico sono ambedue organizzazioni complesse di risorse umane, tecniche e finanziarie, il cui fine è produrre beni o servizi per soddisfare bisogni individuali o sociali. Ambedue rispondono al “sistema dei bisogni” — così Hegel definiva la società civile — e perciò le loro risposte sono sottoposte al giudizio di efficienza e di efficacia. Ambedue utilizzano personale addetto a funzioni diverse con stipendi differenziati. 



Ma qui finiscono le somiglianze. Per l’azienda la prova provata della capacità di soddisfare i bisogni individuali e sociali è il profitto. Che non è solo la remunerazione del capitale; è anche segnale di efficienza/efficacia della combinazione delle risorse. Se il prodotto non risponde adeguatamente al “sistema dei bisogni”, l’azienda non fa profitti e chiude i battenti. Il mercato, questo “giudice a Berlino” severo, onnipresente e invisibile, ne decide le sorti. Se c’è profitto, l’azienda funziona! 

E la scuola? E’ un’organizzazione complessa di risorse umane, tecniche e finanziarie, il cui fine è rispondere al bisogno sociale e individuale fondamentale dell’educazione: trasmettere il sapere di civiltà e civilizzare il ragazzo che ha di fronte. Si tratti di un servizio educativo offerto dalla scuola statale o da quella paritaria o da soggetti privati, profit o non profit, ciò che decide se la scuola funziona, non è il profitto/non-profitto, ma la sua capacità di risposta ai bisogni educativi. 



Proprio perché la scuola ha una finalità diversa da quella dell’azienda, proprio perché non è un’azienda, ha bisogno di una valutazione esterna. L’azienda è giudicata dal mercato e dal profitto. E la scuola? Deve essere giudicata dal suo committente: le famiglie, i cittadini, lo Stato, sulla base di criteri generali “altri” rispetto al principio socio-economico del profitto. Non perché sia un principio demoniaco, ma perché del tutto inadeguato rispetto all’oggetto: l’educazione del ragazzo. 

Pertanto, organizzare la vita interna della scuola secondo criteri di autonomia, di responsabilità e di differenziazione di carriere, di funzioni e di stipendi, autovalutarsi e farsi valutare da un ente esterno alla scuola è solo il segno che la scuola non è un’azienda. 

A meno che… si ritenga e si sostenga che la scuola di Stato non abbia necessità di essere valutata, perché tutto ciò che fa lo Stato è al di là del bene e del male, perché lo Stato è inverificabile, perché è “ab-solutus”. Qui il cerchio ideologico si chiude, svelando il motore nascosto dell’intera sillogistica: lo statalismo puro e semplice. Esso si dispiega secondo una precisa e prevedibile fenomenologia ideologica: la scuola quale ufficio decentrato del ministero, il personale burocraticamente omogeneo nelle sue mansioni, l’organizzazione burocratico-centralistica intoccabile, il rispetto delle procedure quale unico criterio di valutazione dell’azione educativa ridotta a pura istruzione. Alla base delle ricorrenti denunce della deriva della scuola verso l’azienda non sta l’odio viscerale del profitto, ma l’adorazione — ancora oggi — dello Stato assoluto.