In tempi in cui il dibattito sulla valutazione si fa sempre più acceso, basterebbe guardare una puntata di uno dei tanti talent show (da Next Top Model ad American Idol, da Amici a Ballando con le stelle, da Italia’s Got Talent a Make up Artist o Masterchef e oltre) per capire che l’indice dell’acredine potrebbe abbassarsi molto più velocemente di quanto non accada alla temperatura, grazie a condizionatori e simili presenti ormai ovunque. A fare da detonatore, tra figuracce e performance d’altissima professionalità, funziona a mio avviso un florilegio di aggettivi qualificativi (come simpatico, divertente, bravo, bellissimo, originale, creativo, incredibile, spettacolare, fantastico, mitico, pazzesco, ecc.) che si distribuiscono in un crescendo e si arricchiscono, da un lato, di formule di mitigazioni e litoti (non eccelso, si può fare di meglio, non mi sono emozionata, ecc.) e proseguono, dall’altro, con formulari, frasi idiomatiche e locuzioni iperboliche (per me è mille volte sì, sono senza parole, sei nato per fare questo, mi sei piaciuto da morire, ecc.).
L’effetto rinfrescante e rilassante si ha anche nel caso vengano adottate espressioni addirittura offensive, per lo più avulse alla modalità comunicativa dei giudici dei talent show italiani, ma frequenti oltre confine: in Britain’s Talent Show, per esempio, si arriva a sentire “You can’t sing”, “You are an idiot”, “You are stupid and pathetic”, “This performance is terrible”, “You and your performance are disgusting”, “Completely and totally horrible” e oltre. La parola, insomma, aiuta in ogni caso a concettualizzare e a comprendere e la conoscenza porta sempre con sé anche una possibilità in più di fugare molte delle nostre paure e ansie. Eppure questa cultura della valutazione e questa strategia cognitiva fatica ancora ad essere accettata nel nostro paese e non si sa perché.
Con il termine valutazione, come tutti sanno, si fa riferimento alla valuta e, quindi, prima di tutto, alla stima di un valore economico. Già in latino il verbo valere significava anche giudicare e formulare, dunque, una misurazione anche di abilità, virtù e ogni tipo di attività estranea rispetto alla pura dimensione monetaria e, d’altra parte, in italiano anche apprezzare ha avuto una simile sorte di nobilitazione e di trasferimento metaforico. Come tutte le operazioni che compiamo nella vita quotidiana, la valutazione ha un suo vocabolario di riferimento e questo non è limitato all’aggettivazione qualificativa basica che, dall’insufficiente all’eccellente, corrisponde alla diretta traduzione in forma verbale di una votazione numerica.
Non a caso le famiglie italiane si sono abituate a decodificare le sottigliezze dei formulari dei giudizi fin dal 1977, quando la legge 517 abolì la pagella e introdusse nella scuola media la scheda personale dell’alunno. E’ vero che nel 2009 il Dpr 122, articolando la valutazione sul processo di apprendimento, comportamento e rendimento, ha restaurato il voto numerico collegiale nella scuola secondaria di primo e secondo grado, ma la scheda è tuttora in vigore nella scuola elementare accanto al voto e così pure varie elaboratissime griglie di diversi parametri, come: la partecipazione (motivazione, interesse, capacità di proporsi, ecc.), l’impegno (continuità, accuratezza, disponibilità, ecc.), il comportamento (autonomia, responsabilità, rispetto delle regole) e il profitto (certificazione sull’acquisizione/apprendimento di conoscenze e competenze).
D’altra parte molti degli stessi genitori, come candidati a concorsi e selezioni di lavoro, hanno avuto modo nel loro iter lavorativo di conoscere per altre vie la complessità della retorica del giudizio di commissioni e selezionatori, ben diverso dal netto sì/no dei cacciatori di teste, head hunter ed esperti in executive search degli ambienti aziendali.
Nonostante ciò, il lessico e gli stilemi inerenti a tali arzigogolati processi di disamina sembrano essere rimasti del tutto estranei alla nostra comunità di parlanti e che siano rimasti relegati in un codice scritto, ormai compreso dalla maggioranza, ma non per questo reimpiegato spesso in maniera attiva e consapevole. Difficile sentire, infatti, qualcuno che, parlando, adotti locuzioni fisse come ottima padronanza, esposizione brillante, svolgimento esauriente o non eccelso, o le tante altre espressioni fossilizzate di cui i verbali concorsuali tracimano. Forse non è un caso, quindi, che nel nostro paese si fatichi ancora a parlare di valutazione, così come è accaduto di nuovo recentemente di fronte, per esempio, ai test Invalsi o alla possibilità di approntare un sistema di valutazione dei valutatori (i docenti) d’ogni ordine e grado, dall’asilo all’università.
Certo la questione linguistica è in questo caso, come in molti altri, una concausa e un fattore che, co-occorrendo con altri è anche un sintomo, a seconda dei punti di vista, di una più generale questione di sedimentazione culturale e sociale. Eppure la rivoluzione verso quel tono, invece, più colloquiale e diretto, più autentico dei talent show sta nel suo piccolo favorendo un cambiamento epocale nel nostro modo (e in particolare in quello dei giovani) di percepire la valutazione. Le nuove sfide del mondo del lavoro, la competizione europea e l’internazionalizzazione stanno giocando un ruolo importante in questo senso, ma non di meno rilevante è quello assolto dalla tv, protagonista ancora oggi della modifica di paradigmi linguistici e comportamentali della nostra società. Una prima svolta si era registrata negli anni 60, quando il maestro Manzi riuscì a completare il processo di italianizzazione e di alfabetizzazione con tale intelligente capacità comunicativa che persino Popper avrebbe riconosciuto che quella sua tv didascalica era tutt’altro che una cattiva maestra.
La seconda svolta si sta verificando negli ultimi anni e sta lentamente, ma inesorabilmente, diffondendosi non solo attraverso la programmazione dei vari talent show, ma anche tramite una tendenza sempre più pervasiva a inserire gare di competizione e di selezione nelle più diverse trasmissioni d’intrattenimento. L’audience sale e anche la capacità di osservazione e di comparazione dei telespettatori si è ormai generalizzata molto di più di quando negli anni 50 apparvero in tv i primi applausometri. I social network, a loro volta, stanno assolvendo sempre più spesso al ruolo di cassa di risonanza di tale intensa attività valutativa e non sempre con motivate ragioni e buon senso.
C’è ovviamente sempre da auspicare e difendere la libertà di insegnamento e di giudizio all’interno del nostro sistema formativo, ma credo che lo stesso corpo docente e dirigente sia in grado di sviluppare i dovuti antidoti.
Forse, a tal riguardo, val la pena ricordare che l’origine del termine valutazione risale al sanscrito e con molta probabilità alla radice bal– che indicava la “forza” e che, quindi, proporsi attivamente a ogni tipo di disamina, e non solo sottoporvisi, può significare un vantaggio, una conoscenza nuova che può funzionare oltre lo schermo della scatola magica, purché parole sempre più autentiche e chiare prendano il sopravvento su quello che qualcuno chiamava il cancro della retorica, altri il difficilese, e che potrebbe essere ribattezzato in questo specifico ambito il giudiziese.
Ovvio che ugualmente il paradigma delle conoscenze, nonché quello delle metodologie di apprendimento/ insegnamento, si stanno ormai modificando nella scuola e nelle università e che solo grazie all’acquisizione del saper fare si possa uscire da modelli formativi non più adeguati alle nuove esigenze del lavoro e sempre meno attraenti per i nostri giovani. Insomma, il rischio non è che la scuola si metta a inseguire i pattern proposti da centri di formazione alternativi e nello specifico dalla tv, che tra l’altro li presenta edulcorati e semplificati per questioni di forza maggiore. Sembra piuttosto quello che si rimanga bloccati nella gabbia di un sistema autoreferenziale e, ancora una volta, di un linguaggio non comunicativo.
Non è più pensabile, infatti, che si elaborino ancora serie valutazioni in base a ciò che ci aspettiamo dagli studenti e all’interno di frame, schemi e terminologie che la scuola stessa ha generato. Non si può esaminare solo l’efficacia di un percorso, il rapporto fra ciò che si è investito e il raggiungimento di un obiettivo (per es. saper fare un tema, saper esporre o saper rispondere a una interrogazione), ma si deve tener conto anche della sua efficacia, del rapporto fra ciò che si è investito e il risultato. L’interfaccia con l’esperienza, dunque, e la verifica su campo o sue simulazioni (anche ludiche) non può essere rinviata oltre e così pure l’autovalutazione dei professori che, esperti nell’osservare capacità e attitudini degli studenti, misurano costantemente le proprie competenze a lezione, ma non per questo possono sentirsi esenti dall’onere/onore di migliorare e rinnovarsi. L’autonomia scolastica e della università significa anche questo.