Sono migliaia le persone alle quali in queste settimane bussa alla porta, in applicazione del disposto della legge sulla Buona Scuola, la chiamata per l’agognato posto “di ruolo” nella scuola di Stato e, con loro, alcune migliaia quelle per le quali, inaspettatamente, si è riaperta una possibilità di lavoro nei posti lasciati liberi dai nuovi assunti in altri settori lavorativi o nelle scuole paritarie. Un bell’esercito di donne e uomini per i quali questo scampolo di estate ha portato la sorpresa di un compimento professionale atteso da molti anni, il regalo di essere “pescati” da graduatorie delle quali avevano persa, in molti casi, la memoria, un interpello che rimette in discussione consuetudini familiari ed affettive nel dover scegliere province talvolta lontane, ambiti e classi di concorso per la nuova cattedra. 



E che chiede di “decidere” in modo definitivo per una professione.

Un’occasione per lasciarsi interpellare dalle domande più vere: per cosa vale la pena rischiare di finire ad insegnare in un’altra provincia? Cosa mi aspetto dal lavoro di insegnante? Cosa mi interessa trasmettere ai ragazzi? Che immagine ho della scuola come luogo di educazione? Perché scelgo, ora, questa professione, per sempre? E scegliere è sempre un rischiare la propria libertà per aderire a ciò che, in fondo, veramente ci corrisponde: un movimento, dunque, quello in atto in queste settimane, di migliaia di libertà rimesse in gioco. Già solo per questo, ciò che sta accadendo potrebbe essere già una benefica rivoluzione per i destini della scuola italiana.



Questa storica assunzione potrebbe, però, anche rappresentare l’occasione per rilanciare un rinnovato protagonismo formativo e culturale degli insegnanti? Di che cosa c’è bisogno?

Non sono i numeri che incidono sulla realtà e la cambiano, ma l’io di ciascuno: e di questo che c’è proprio, oggi, tanto bisogno nelle nostre scuole, luoghi dove cuori e destini di milioni di ragazzi urgono di incontrare adulti significativi e competenti, liberi di educare. Uomini vivi, cioè impegnati a ricercare possibilità di soluzione alle proprie esigenze e capaci di dare ragioni della visione delle cose che insegnano e comunicano. Il lavoro educativo è in funzione di qualcosa di grande da scoprire insieme, docente e giovane, ed è questa posizione di ricerca che rende l’adulto che esercita la professione di insegnante, attore, artefice, protagonista. Utile. Un compito ed una sfida da rilanciare in questi tempi di assunzioni in massa, e decisivi per le sorti di quella risorsa fondamentale per lo sviluppo del nostro Paese che è la scuola. 



Come aiutare, allora, chi decide per la professione di insegnante a recuperare ed a vivere le autentiche dimensioni educative e culturali di questo ruolo così arduo e affascinante? Occorre favorire e curare contesti di lavoro e confronto autentici e significativi. 

In primo luogo dirigenti scolastici ed insegnanti, con le famiglie, gli operatori e le istituzioni, devono curare, nelle scuole, la realizzazione e lo sviluppo di spazi di libertà di insegnamento, di progettualità condivisa, di proposte didattiche e disciplinari stimolanti e ricche di ragioni. Un far scuola e vivere la scuola aiutandosi ad un protagonismo culturale che abbia come termine, attraverso l’insegnamento delle diverse discipline e conoscenze, l’autentica suscitazione dell’umano degli studenti (domande, curiosità, intelligenze, talenti, capacità…) e la promozione di solide competenze. 

E, in secondo luogo, occorre garantire ed offrire a chi insegna l’incontro con ambiti culturali, associazioni professionali, istituzioni culturali, luoghi di effettiva formazione del proprio umano: contesti di confronto, di studio, di paragone nei quali l’aggiornamento professionale arricchisca gli strumenti dell’insegnare (la didattica, la metodologia, i contenuti disciplinari) di una prospettiva culturale originale e libera. Educa, infatti, chi si lascia educare e formare: condividere con altri, presidi ed insegnanti, e comunicare il proprio modo di concepire, di valutare ed affrontare la realtà del proprio lavoro può far sorgere e, nel tempo, maturare delle originalità culturali nella scuola e nelle scuole, per il bene di tutti. 

Commentando il numero di domande di adesione alla procedura nazionale del piano straordinario di assunzioni previsto dalla nuova legge 107/2015 il ministro Giannini qualche giorno fa ha affermato: “I candidati hanno capito l’importanza di partecipare per la loro vita e per quella della scuola”. Per meno di questo la macchina delle assunzioni non avrà contribuito altro che, legittimamente, a sistemare delle precarietà, a realizzare promesse politiche, ad accontentare aspettative sindacali, affossando, forse definitivamente, la possibilità di puntare su un investimento in capitale umano decisivo per il bene degli studenti. 

La drammatica attesa dei ragazzi urge ora di essere corrisposta dalla intelligente disponibilità a mettersi autenticamente in gioco di noi tutti: adulti, prèsidi, insegnanti (vecchi e nuovi) e non solo.