Lo studio — annota Proust — diventa pericoloso quando, anziché destarci alla vita, tende a sostituirsi a essa. Diventa pericoloso quando la verità appare non più come un’esperienza verificabile in proprio, ma come una dottrina inerte tra le pagine dei libri, da cogliere distrattamente sugli scaffali delle biblioteche o tra le maglie della rete. La concentrazione del pensiero e lo sforzo del cuore, dunque, sono ciò che permette allo studio di non essere inerte o passiva degustazione di surrogati. Che cosa autorizza allora un uomo, o una donna, a istruire un altro essere umano? E che cosa significa “trasmettere” conoscenze? Sono questioni che già si poneva sant’Agostino, ma non pare abbiano perso attualità.
L’insegnamento è interazione, osmosi: se ciascuno fa la sua parte, il maestro apprende dall’allievo mentre gli insegna. L’intensità del dialogo genera amicizia nel senso più alto della parola. L’insegnante non è niente di più e niente di meno che un messaggero, un traduttore. È tanto più bravo quanto più ricettivo nei confronti di un sapere che lo precede. Ed è questa precedenza la fonte unica della sua autorità. Il docente è il postino o corriere dell’essenziale, di una verità che, ogni giorno, ha bisogno di tornare alla luce. La verità, come la bellezza, per essere spiegata deve essere testimoniata. In questo senso un insegnante è autorevole soltanto nella misura in cui è anche esemplare: la sua autorità è il suo esempio. Il vero insegnamento è “messa in atto”, ostensione (così Wittgenstein). Come dice un proverbio cinese: un esempio vale più di diecimila parole (don Julián Carrón ha osservato: «un pezzo di realtà vale più di mille parole»). Conviene perciò diffidare degli insegnanti che parlano ma non “si mostrano”. Il vero insegnamento — afferma Socrate nel Simposio — avviene solo attraverso l’esempio. Il suggerimento, tradotto nel linguaggio della canzone napoletana, è lo stesso: Jamm’a vedè. Andiamo a vedere, sempre: perché questa è la cifra dell’umano. Questa è la festa dell’uomo: vedere, e prendere posizione. Uscire allo scoperto — secondo don Giussani — «è radice profonda di tutta l’espressione culturale».
Si prenda un aforisma del grande rabbino Low (Jehuda ben Bezalel), la cui tomba si trova nel cimitero ebraico di Praga: se io andai dal mio maestro non fu per ascoltare insegnamenti da lui, ma per vedere come si allaccia le scarpe. Perché ciò che viene ricordato e assimilato sono soprattutto i momenti in cui verità della mente e verità della vita si abbracciano e si fondono. Come si allacciano le scarpe: cioè, non i pensieri, le teorie, ma un modo di entrare in rapporto con la realtà quotidiana. Una testimonianza di sé: questo, e non una capacità astratta, diventa immediatamente affascinante. Dai maestri si impara proprio così, inesorabilmente: guardandoli vivere il reale.
Quando Steiner ammise: come insegnante, io sono uno showman, nascondeva dietro la battuta una profonda verità. Socrate insegna mediante la sua esistenza. Solo la vita effettiva di ciascuno di noi ha forza dimostrativa. Ed è per questo che in università come a scuola, e in genere nella vita, si sta o si dovrebbe stare insieme. I termini “collegio” e “college” portano in sé proprio l’idea di una “elezione”, di una chiamata (ma chi chiama?) in virtù della quale siamo autorizzati a stare insieme.
Insieme. Perché ci sia insegnamento ci vogliono, oltre che un maestro, allievi all’altezza. Il tema è spinoso, ma si danno casi in cui la “trasmissione” non avviene perché manca chi sia in grado di ricevere il messaggio. Nietzsche è ossessionato dalla mancanza di discepoli adatti, e il suo bisogno di trovare chi l’ascolti è straziante. Come ha evidenziato Maria Zambrano, non essere ascoltato è l’umiliazione più terribile per un essere umano. L’insegnamento è un processo di scambio, è un dono reciproco. Il maestro è riscaldato e illuminato dal fuoco che accende nell’allievo. Perciò si rimproverano i propri allievi, quando questi si dimostrano indegni o sleali. Quando si dimostrano — letteralmente — disumani, perché, come ha sottolineato don Carrón, «se l’umanità non è in gioco, il cammino della conoscenza si ferma».
Il maestro parla al discepolo e questi gli risponde, almeno nel suo cuore. La parola pronunciata — l’oralità — è tutt’uno con l’atto di insegnare. Da Platone in poi l’ideale dell’insegnamento è quello di una verità vissuta faccia a faccia. Un insegnamento onesto — che lasci scaturire la verità — richiede rapporti “faccia a faccia”. Altrimenti i libri, le biblioteche e la rete basterebbero, e potremmo tutti stare a casa, soli. L’insegnamento o l’apprendimento, per essere autentico, deve interagire con le nostre esperienze, modificarle ed esserne modificato. È andare fino in fondo senza pudore. L’incontro fecondo, con un maestro o con un discepolo, è sempre, innanzi tutto, l’incontro con un volto, con una storia. E la forza autentica di ogni insegnante si può misurare, oltre che dai libri, dalle tracce vive che ha lasciato. Dire e dare sono, quando si insegna, davvero vicini: l’insegnamento — conclude Maria Zambrano — è «un dirsi che implica e comporta anche un darsi, che impegna in prima persona il sentire, il senso vissuto».