Settembre. Andiamo, è tempo di migrare. Così dice il poeta, mentre noi, lontano dagli stazzi e dagli armenti, non migriamo, ma ricominciamo. Si ricomincia, si deve ricominciare una scuola che si vuole diversa, una buona scuola così come ce l’hanno dipinta per tutta l’estate. E sembra che l’accento di ogni discorso sia posto proprio su quel “si deve”, come se ricominciare fosse una forma di condanna cui non si può sfuggire; come se dovessimo di nuovo tendere i muscoli per affrontare daccapo una salita, una fatica.
Ma forse quest’anno è diverso. Ci sarebbe da scrivere pagine e pagine su un balletto di cattedre e incarichi che si prospetta ancora più inquietante del solito, con una specie di labirinto di indicazioni programmatiche, rivoluzioni didattiche gridate per mesi e mesi dalle tv e dai giornali. Non è così: l’aria che si respira è quella solita e i colleghi, nel collegio docenti del primo di settembre, si guardavano con quella specie di commiserazione reciproca che sembra dire: cosa vuoi, si deve.
Uno sforzo sovrumano, ecco cosa si legge in quegli occhi. Ma basta davvero uno sforzo di volontà, anche un impegno caparbio, un rimettersi sulla strada a testa bassa per ripartire? Non lo so, a me sembra che se fosse così mancherebbe qualcosa. Ed è questo “qualcosa” che, invece, occorrerebbe riscoprire, mi dico. Immagino il bambino che per quasi tre mesi ha lasciato da parte quaderni e matite, la noia dei compiti e dei banchi, che si è dimenticato persino del colore della sua aula e che adesso deve ricominciare. Cosa gli dico io, professore che ricomincio con lui: che si deve? Se c’è qualcuno che non è capace di essere mosso soltanto da questo imperativo credo sia proprio un bambino: anche le cose che deve fare e di cui non si riesce a spiegargli il motivo, le può fare solo per un’affezione.
Ma è tanto diverso per noi? Non si può partire se non si è mossi da qualcosa, se non incontriamo qualcosa che ci mette in moto. L’inizio è sempre una questione di fascino, di attrazione. Mi dico che bisogna proprio avere qualcosa a cui guardare, per partire. E ancora di più per ripartire, per ricominciare. E noi dove guardiamo?
Forse il preside di un mio amico collega deve avermi sentito, deve avere capito che, buona scuola sì o buona scuola no, per ricominciare non bastano né le promesse, né la caparbia volontà d’impegnarsi ancora. Deve avere capito che ci si può impegnare non per un sogno, ma solo per qualcosa di concreto e reale, qualcosa della cui bellezza non possiamo fare a meno.
Dev’essersi chiesto anche lui come si fa a ricominciare, dove si trova la forza che non sappiamo darci da soli per affrontare di nuovo il tempo e le cose. Così, dopo avere salutato al microfono i suoi insegnanti, ha spento le luci dell’aula magna, ha fatto scivolare giù lo schermo e ha fatto partire il film The butterfly circus, un cortometraggio che qualcuno degli insegnanti aveva anche già visto forse, ma che non si sarebbe sognato di trovarsi davanti il primo giorno di scuola, nel primo e più indigesto dei collegi docenti dell’anno.
Nick Vujicic è Will, un uomo senza arti inferiori e superiori, un fenomeno da baraccone che viene presentato come uno che Dio stesso ha rigettato, e viene esposto insieme ad altri mostri come lui all’interno di una fiera di paese, probabilmente nel bel mezzo della depressione economica americana del ’29. In quel paese arriva il circo del signor Mendez; Will rimane estasiato davanti alla forza dell’uomo più potente del mondo, alla sinuosità dell’uomo contorsionista, alla strabiliante capacità di equilibrio del più vecchio trapezista e al resto della troupe. Mendez lo guarda e lo sfida: come sono pieni di forza, di eleganza, di colore, come sono sbalorditivi gli dice. E Will risponde che non sono certo come lui. Mendez gli apre nel cuore una specie di ferita grande come una caverna invitandolo a pensare alla bellezza che viene dalle ceneri, affermando che lui ha un vantaggio nei loro confronti, perché per lui sarà più grande il trionfo, poiché più grande sarà la lotta. Tutti gli uomini e le donne del circo hanno alle spalle una storia complicata e difficile, il film le racconta velocissimamente e poi torna a Will che raccoglie la sfida di Mendez: non sarà più un fenomeno da baraccone, seguirà il circo, starà con quegli uomini e quelle donne che gli stanno vicino e che però vorrebbero che lui riuscisse a vedersi come Mendez lo vede, come loro lo vedono. E così accade: Will impara a camminare, a nuotare, a muoversi, s’inventa un numero di abilità e coraggio assoluto per lo spettacolo del circo, viene applaudito per la sua capacità, non più guardato con compassione e orrore, con timore e curiosità come accadeva prima. Molti passaggi del film meriterebbero di essere ripresi per la loro forza narrativa e simbolica, ma dobbiamo tornare al collegio, a quegli insegnanti, a quel preside.
Il mio collega mi racconta che in venti minuti di proiezione potevi allungare la mano e toccare l’anima di tutti quegli insegnanti, sentire che lì stava accadendo qualcosa. Al termine del film il preside ha riacceso la luce e ha detto poche parole prima di cominciare a snocciolare argomenti e problemi all’ordine del giorno.
Come si fa a ricominciare? Dallo sguardo. Ecco, ha detto, a me piacerebbe che anche noi fossimo capaci di quello sguardo sulle persone e sul mondo di cui Mendez è capace, di quello sguardo che può rendere nuove tutte le cose. Vedete, ha detto ai suoi insegnanti che avevano ancora un po’ di magone negli occhi, noi siamo diversi, abbiamo idee differenti, strategie e proposte anche divergenti, la scuola stessa, l’istituzione scuola, buona o meno che sia, non è sempre capace di rispondere chiaramente ai suoi compiti. Ma se c’è una cosa che voglio per me e per voi all’inizio dell’anno scolastico, se c’è qualcosa che mi fa ricominciare è esattamente il desiderio di uno sguardo così che è capace di ridisegnare la vita, che la porta dove non pensava neanche di andare: un nuovo inizio è la possibilità di un nuovo incontro con la realtà grazie a uno sguardo nuovo.
Noi ce li abbiamo degli occhi così per cominciare di nuovo? E contemporaneamente: cosa guardiamo? Vediamo la bellezza che può venire dalle ceneri? O siamo solo in grado di vedere le difficoltà, i problemi, gli intoppi?
Ricominciare vuole dire riscoprire questa bellezza, guardarla di nuovo negli occhi. Ma non è un esercizio, un impegno, uno sforzo che dobbiamo fare: gli insegnanti di quel collegio docenti sono stati messi davanti a una bellezza impensata e impensabile, a una specie di dono raccontato con immagini e parole che rimangono lì adesso mentre si deve decidere il Ptof, il Pai, il Pei e tutto il resto. E che non si dimenticano: se sono lì adesso in quel modo è perché almeno un istante quell’esperienza li ha toccati, li ha presi, li ha attratti. Quella storia, la sua bellezza, la sua struggente libertà lavora adesso dentro di loro, come solo le storie sanno fare.
Forse la scuola deve tornare lì, alla narrazione che può cambiare le cose e il mondo, e quello che è successo agli insegnanti deve ripetersi per i loro alunni. Diavolo d’un preside, forse è così che si ricomincia. E a noi non resta che chiedere che questo sguardo possa accadere, che ci accada la capacità di riconoscere quella bellezza che abbiamo incontrato, che impariamo l’umiltà di invocarla di nuovo. Questa coscienza ci farà capaci anche del resto, ci farà capaci di affrontare la realtà con più passione, con più carità, con più intelligenza delle cose. Persino del Ptof, del Pai e del Pei. E magari sarà il caso di raccontarlo.