Due classi prime elementari di Brescia quest’anno non hanno nemmeno un alunno italiano, ma non è una novità: già nel duemila, quando insegnavo a Genova, la scuola media Baliano ebbe una prima (la A, se ben ricordo…) tutta di stranieri. Ma in quell’epoca Salvini non  aveva la barba, faceva il consigliere comunale e frequentava senza grande successo la facoltà di scienze storiche, e quindi non se ne occupò, e la vicenda ebbe poco spazio sulla stampa. Sono possibili molte reazioni: mettiamo un tetto agli stranieri (con una versione lega hard che fissa il tetto il più vicino possibile a zero); non è un problema, ce ne stiamo occupando, lo risolveremo (versione ministeriale, che indica un certo grado di sottovalutazione del fenomeno); è un problema, che va studiato e risolto tenendo conto sia delle necessità di questi ragazzi sia delle comprensibili preoccupazioni dei genitori italiani, che temono un abbattimento della qualità dell’istruzione per i propri figli (e se possibile li mandano in un’altra scuola). 



Tutte queste posizioni contengono una parte di verità: un numero eccessivo di bambini stranieri concentrati in una sola classe o scuola finisce per essere l’esatto contrario dell’integrazione; è vero che il ministero sta facendo il possibile per venire incontro ai bisogni di questi ragazzi (per esempio, fornisce ogni anno un quadro analitico della situazione, il che non è comune); e infine i genitori, anche i più accoglienti, si pongono inevitabilmente delle domande sulle conseguenze di questa situazione sui loro figli, soprattutto dal punto di vista degli apprendimenti.



Il punto da cui partire, al di là delle singole posizioni, è che la presenza dei bambini di origine straniera non è un fenomeno né temporaneo né reversibile, perché è legato ad una serie di fenomeni migratori al momento inarrestabili, e quindi va affrontato con grande realismo e un’ottica di lungo respiro. Molti di questi bambini, come nota anche il ministro Giannini, sono nati in Italia, o hanno frequentato in Italia la scuola materna o primaria, e parlano italiano, per cui hanno più o meno le stesse difficoltà dei bambini italiani nelle medesime condizioni socioeconomiche. Secondo l’ultimo Rapporto dell’Ismu riferito al 2013/14, le classi con oltre il 30% di stranieri sono oggi il 6%, con una punta del 13% in Emilia-Romagna; ma quelle con oltre il 30% di alunni nati all’estero sono meno del 2%, con punte del 4% in Liguria e Emilia Romagna. Il problema della concentrazione di studenti nati o scolarizzati all’estero è più pressante nelle zone dove sono presenti più immigrati, e in esse nei quartieri dove gli immigrati abitano: e la soluzione educativa non è semplice, perché deve realizzare un equilibrio fra bisogni di bambini italiani e bambini di origine straniera che non parlano italiano.  



L’idea di Salvini, ma non solo di Salvini, del “tetto” alla presenza di bambini stranieri nelle classi deve però fare i conti con la domanda di che cosa ne facciamo dei bambini in più. Li spostiamo (stavo per dire “li deportiamo”) in un’altra scuola, separandoli dagli amici del vicinato e creando un problema per le famiglie, per evitare la formazione di classi-ghetto? Il tentativo è stato fatto in più luoghi, tra cui la Francia ricordata dal ministro Giannini, ma si è visto che le difficoltà dei bambini spostati non diminuivano affatto, anzi, e la loro integrazione era resa più difficile dal fatto che al di fuori della scuola non interagivano con i loro compagni, con cui quindi non si creava nessuna solidarietà. 

Se i bambini stranieri restano nella scuola di appartenenza territoriale (potrebbero peraltro scegliere liberamente di andare in un’altra scuola) è necessario evitare due fenomeni entrambi negativi: la “fuga” degli italiani, e l’abbassamento della qualità della formazione legato alle scarse conoscenze linguistiche. 

Il primo rischio si contrasta (ma non esistono automatismi né formule sicure) migliorando l’offerta formativa delle scuole più spiccatamente multiculturali, come avviene sempre in Francia nelle Zep (zones d’éducation prioritaires, ndr), le zone prioritarie di forte bisogno educativo, dove si cerca di trattenere i bambini “indigeni” incentivando gli insegnanti migliori e offrendo attività integrative sportive, espressive, di apprendimento delle lingue. Il secondo rischio si contrasta fornendo ai bambini stranieri, ma anche agli italiani che ne avessero bisogno, ore di attività integrative “accademiche” nelle materie principali, una formazione in italiano e un sostegno tutoriale a piccoli gruppi. 

Io sono, personalmente, favorevole all’esistenza di “classi zero” per tutti i bambini che non conoscono affatto l’italiano, che da subito possono svolgere qualche attività con i coetanei e vengono poi inseriti nella classe del loro livello di età man mano che raggiungono le necessarie competenze, linguistiche e nelle materie di base: l’esperienza è stata realizzata in altri paesi, ad esempio in Germania, ma in Italia è stata respinta sdegnosamente dai fautori del politicamente corretto, noncuranti del fatto che un bambino inserito in una classe in cui non riesca a comunicare e non capisce che cosa succede è ben più drammaticamente isolato di un bambino che passa parte del suo tempo in una situazione strutturata di apprendimento della lingua. Sarebbe necessario capire quanta parte delle minore riuscita scolastica dei bambini stranieri, che hanno tassi di ripetenza e abbandono molto più elevati degli italiani, sia dovuta appunto alle carenze linguistiche mai veramente sanate. A tutte queste iniziative possono essere destinati docenti provenienti dall’organico dell’autonomia. 

Anche solo da queste poche righe appare chiaro che si tratta di una delle sfide del nostro sistema formativo, che ha dato finora una discreta prova di sé dal momento che crescono lentamente ma sistematicamente i ragazzi stranieri che non solo continuano la secondaria con esiti positivi, ma arrivano all’università e la stanno completando. Si tratta di evitare le semplificazioni populistiche e le letture del tipo “Giannini versus Salvini”, che lasciano il tempo che trovano e non giovano a nessuno, né agli italiani né agli stranieri. Piuttosto, sarebbe bello che gli uffici scolastici regionali, oltre al ministero, dessero spazio allo scambio di esperienze e alla formazione tra pari, che ha spesso esiti molto positivi ed è un’occasione eccellente di sviluppo della professionalità docente.