Caro direttore,
provo a scrivere la mia opinione in risposta alla domanda di Giorgio Vittadini: Perché all’estero apprezzano i nostri laureati? Innanzitutto mi felicito del fatto che si discuta questo punto, spesso relegato a qualche articolo un po’ laterale rispetto a quelli che vengono ritenuti i problemi reali del Paese e che invece rappresenta uno degli indicatori principali delle nostre difficoltà e di come dovremmo superarle. Perdere il nostro capitale umano più qualificato dovrebbe preoccuparci al pari della dimensione del nostro debito pubblico.
Mi scuso in anticipo per la semplificazione, ma la risposta alla domanda di Vittadini è che i nostri giovani non sono particolarmente apprezzati, ma all’estero trovano più opportunità perché quasi nessun Paese straniero ha perso 10 punti di Pil negli ultimi 8 anni. I laureati vanno dove le aziende assumono e dove il Pil cresce. In Italia non cresciamo perché non c’è meritocrazia, come ben sanno i giovani e meno giovani italiani che all’estero fanno esperienze continuative.
Sottintesa alla domanda c’è però una critica, che condivido, alle aziende italiane che spesso non valorizzano le proprie persone e la tesi per la quale le nostre università preparano bene i loro studenti. Sul secondo punto condivido in parte.
Se è vero che la qualità del sistema educativo non è il fattore su cui siamo più indietro rispetto ai nostri competitor internazionali (si veda qui) e che parte di questo ritardo è dovuto al fatto che si investe meno che altrove in istruzione e ricerca, è anche vero che le università e il sistema scolastico in Italia hanno buoni margini di miglioramento e che il dibattito pubblico e politico spesso non centra i punti fondamentali per recuperare questo gap.
In particolare, i nostri laureati sono generalmente ben educati in termini di cultura generale e competenze teoriche, ma mancano in quelle che si definiscono le “soft skills” o che io preferisco definire “comportamenti”, in particolare l’etica del lavoro, la comunicazione, il problem solving, la capacità di dibattito, che sono fondamentali nel nuovo mercato del lavoro. Mancano inoltre di alcune competenze “pratiche” come la conoscenza delle lingue, l’esperienza professionale durante gli studi e l’imprenditorialità, per citare alcuni esempi.
Le università e il sistema educativo sono inoltre molto restii al cambiamento per problemi culturali, sindacali e burocratici, tanto che i giovani stanno recuperando questi gap più con la loro intraprendenza o con il supporto del circuito amicale e familiare (questo non è sempre un bene) che non con il supporto delle istituzioni scolastiche.
Cullarsi sul fatto di non essere tanto peggio degli altri non è buona cosa. Le università in Italia hanno un compito difficile, supplire alla scarsa capacità delle aziende di fare formazione e seguire il cambiamento della globalizzazione, ma non possono tirarsi indietro dall’accettare la sfida e vincerla, accodandosi all’ampio seguito di quanti nel nostro Paese dicono che i problemi sono sempre degli altri.