Nella settimana in cui è ripreso l’anno scolastico sono da segnalare un paio di notizie che riguardano il mondo della scuola, e alle quali i giornali hanno dato giustamente risalto. La prima è la pubblicazione di una ricerca curata dall’Ocse (qui l’articolo del Corriere che ne da conto e qui la pubblicazione Ocse) che sembra segnare un punto a favore della scuola tradizionale alla faccia dei cultori della digitalizzazione forzata. 



I risultati della ricerca possono sembrare sorprendenti: l’uso massiccio a scuola delle tecnologie informatiche (pc, connessione internet, etc.) produce effetti negativi sull’apprendimento. Più precisamente i ricercatori dell’Ocse, analizzando i dati raccolti in occasione dei test Pisa del 2012, sostengono che l’uso di tali strumenti è correlato a migliori livelli di apprendimento, ma solo fino ad una certa frequenza, una o due volte alla settimana; superata tale soglia si registrano livelli di apprendimento decisamente bassi. Chi lavora nella scuola, a differenza di chi se ne occupa dall’esterno, non è affatto sorpreso da tali risultati: ogni insegnante sa che uno strumento di lavoro aiuta gli alunni ad imparare quando è utilizzato con criterio e sa che non esiste alcuno strumento che garantisca di per sé l’apprendimento. Considerando ad esempio l’aritmetica elementare, negli anni le classi si sono riempite di materiali multibase, regoli colorati, linee dei numeri, schede e tabelle, software di ogni sorta che ciclicamente assicuravano facile e stabile apprendimento unito ad approcci coinvolgenti se non divertenti. Le stesse classi si sono anche riempite delle lamentazioni di generazioni intere di insegnanti che rimpiangevano quanto facevano un tempo perché con gli alunni di oggi si riesce a fare sempre meno.



Ogni strumento, in quanto tale, ha bisogno di essere conosciuto, utilizzato e apprezzato per lo scopo che si prefigge chi lo usa. In altre parole c’è bisogno di imparare ad usarlo: a differenza di quanto accadeva sino a pochi anni fa, la velocità dell’innovazione tecnologica fa si che ora debbano imparare sia gli studenti sia i docenti. Questa osservazione raccomanda una certa prudenza nell’introduzione delle nuove tecnologie a scuola e dà ragione dei risultati della ricerca che possono anche essere interpretati alla luce di una mancanza della loro conoscenza, delle opportunità che offrono e insieme dei limiti. 



L’altra notizia è venuta dal ministero ed è la presentazione della seconda edizione del progetto “Programma il futuro”, che intende favorire l’introduzione della programmazione informatica a partire dalla scuola primaria o più precisamente secondo le parole del ministro Giannini: “…una competenza trasversale che, come per le competenze linguistiche, è fondamentale acquisire fin dai primi anni di studio. Il coding è una nuova lingua, una lingua computazionale, e impararla è un modo straordinario per entrare nel mondo con il piede giusto”.

Sembra quasi che questa iniziativa suoni a risposta del rapporto Ocse, con l’intento di preparare i bimbi di oggi al mondo in cui si troveranno a vivere e dove i loro compagni più grandi faticano ad orientarsi. Quali sono i modi per raccogliere questa sfida? È interessante rileggere un giudizio del rapporto Ocse citato testualmente nell’articolo del Corriere: “Per arrivare a una comprensione concettuale profonda e a un elevato livello di pensiero serve un’intensa relazione docente-insegnante”. In due righe si configura un’idea di scuola che merita di essere oggetto di riflessione da parte degli insegnanti e non solo, e che è interessante da paragonare a quanto quotidianamente accade nelle aule delle nostre scuole: quante lezioni sono pensate e svolte con l’intento che i bambini e i ragazzi arrivino a una comprensione concettuale profonda e quante invece all’assimilazione passiva di contenuti? Quante attività didattiche richiedono un elevato livello di pensiero e quante invece favoriscono l’assenza di pensiero a favore di un addestramento efficiente all’applicazione di procedure? E insieme a queste domande occorre chiedersi: qual è il ruolo dell’insegnante e come si configura un’intensa relazione docente-allievo?

Rispondere a queste domande può senz’altro aiutare a creare una scuola più adeguata alla formazione delle nuove generazioni.