Titolo: “La catastrofe della scuola“. Contenuto: le dieci emergenze della scuola. “Troppi insegnanti troppo poco pagati, troppi ignoranti in cattedra, troppe ragioni per non impegnarsi (nessun riconoscimento all’ impegno e al merito), troppo vecchiume e poche attrezzature, troppe ambizioni senza mezzi, troppa distanza fra scuola e lavoro, troppo disordine, troppa burocrazia, troppo sindacalismo, troppi sindacatini, forme di lotta troppo dannose, governi troppo ciechi e clientelari“.
Questa citazione è tratta da un numero di maggio 1988 di Panorama. Ora, benché il dizionario Treccani definisca l’emergenza come ” particolare condizione di cose, momento critico che richiede un intervento immediato”, sono passati ventisette anni e quattro mesi, quindici ministri, quattro riforma di sistema (quattro e mezzo, se contiamo il “cacciavite” di Fioroni), e lascio ai miei ascoltatori di chiedersi che cosa, e quanto è cambiato. La citazione non è per la solita smania di sparare sulla scuola, ma al contrario per sottolineare quanto la scuola “reale” sia diversa dalla scuola “parlata”. Per dirla con una citazione dotta, “i riformatori hanno creduto che le loro innovazioni avrebbero cambiato la scuola, ma in effetti, sono le scuole che cambiano le riforme. Tutte le volte, gli insegnanti hanno scelto selettivamente di attuare o modificare le riforme” (Tyack e Tobin, 1994). Le conclusioni da trarre sono due: la prima, che non bastano le buone intenzioni per realizzare una buona scuola, ma servono dei buoni insegnanti; la seconda, che i buoni insegnanti non nascono sotto i cavoli, ma da un lungimirante investimento in quella che in un’impresa si chiamerebbe “politica del personale”.
Ora, il ministero dell’Istruzione, che dopo il Pentagono è quasi certamente l’istituzione che tra i paesi occidentali conta il maggior numero di dipendenti, non sembra avere mai aver perseguito una seria politica in questo senso: tanto per cominciare, non formula previsioni di personale di cui ha bisogno, ma assume ad ondate sotto la spinta di motivazioni estrinseche alle proprie necessità, senza nemmeno confrontare, almeno parrebbe, domanda e offerta divisa per classi di insegnamento e provincia di residenza. Obiettivi e contenuti della formazione iniziale sono definiti assai sommariamente e lasciati agli atenei, il che potrebbe anche andare bene (accade così anche per molti altri settori) se ci fossero un adeguato periodo di addestramento iniziale, un sistema coerente di formazione in servizio e, più importante di tutto, una valutazione finale degli esiti della formazione. Io ritengo che nessuno di questi punti raggiunga la sufficienza, né servirà a molto il fai-da-te dei 500 euro individuali (che forse dati alle scuole e alle reti avrebbero potuto consentire qualche buon risultato). Quanto alla valutazione degli esiti, penso semplicemente che non esista e non sia mai esistita se non occasionalmente, anche quando gli investimenti erano cospicui. Potrei citare tra le lodevoli eccezioni le iniziative di formazione realizzate da Indire, che sempre prevede prima e realizza poi una valutazione sistematica, ma si tratta di una buona pratica poco imitata.
Ora, il rapporto fra la qualità di una scuola e la qualità dei suoi insegnanti non è un giochino del tipo “è nato prima l’uovo o la gallina”, ma una questione fondamentale: se la qualità di una scuola dipende da quella dei suoi insegnanti, per migliorare la scuola bisogna agire prima sugli insegnanti, e non viceversa: invertendo l’ordine dei fattori, il risultato cambia, eccome! Possiamo quindi considerare corretta la molto citata osservazione di Barber e Mourshed che “la qualità di un sistema educativo non può superare quella dei suoi insegnanti” (2007), e tra gli elementi comuni a tutti i sistemi di eccellenza da loro trovati ci sono, oltre alla scelta di garantire ad ogni bambino la migliore istruzione possibile, lo sforzo di scegliere gli insegnanti giusti e quello di formarli adeguatamente. Ne consegue che l’elemento centrale sono gli insegnanti, e quindi i buoni insegnanti vengono prima della buona scuola, o meglio, qualsiasi scuola che abbia buoni insegnanti diventa buona a sua volta, e non esistono buone scuole con cattivi insegnanti.
Passato lo stress del primo giorno di scuola, e avviati a soluzione, almeno si spera, i mille problemi delle sedi e delle assegnazioni, ricordiamo sommessamente ai decisori politici che si dovrebbe riprendere a ragionare in modo sistematico sulle tre grandi aree che vanno sotto il nome complessivo e forse improprio di “questione insegnante”: il profilo professionale, il reclutamento e la carriera, la formazione e la valutazione. E’ probabilmente vero che il buon insegnante, o come si preferisce dire, l’insegnante efficace è difficile da definire, e forse si può dire semplicemente che è “l’uomo giusto (meglio, la donna giusta…) al posto giusto”, come il maestrino del racconto di Mosca che “doma” la V C centrando un moscone con la fionda, ma ciò non toglie che molte competenze e capacità che consentono al docente di rispondere al meglio ai bisogni dei ragazzi siano note, e possano essere sviluppate dalla formazione iniziale e soprattutto da quella in servizio. Dopodiché, la valutazione sarà solo l’ultimo punto di una serie di politiche volte a rinforzare la professione, e non un meccanismo più o meno arbitrario di premi e punizioni.
PS. Auspico che nel gennaio del 2043 ilsussidiario.net non debba ospitare un articolo che dice “sono passati cinquantaquattro anni e otto mesi” eccetera eccetera…