E’ iniziata la scuola, e vari segnali ci inducono a pensare che in certi suoi tratti vada ridisegnata. Partiamo da un esempio concreto. La più importante rivista mondiale di medicina, il Jama, pubblica in questo mese uno studio semplice ma preoccupante: meno si sta all’aria aperta, più si diventa miopi. Il Journal of the American Medical Association (15 settembre 2015) riporta che bastano quaranta minuti di aria aperta in più al giorno per ridurre significativamente l’insorgenza della miopia nei ragazzi. Che stare al chiuso faccia male alla vista è bene noto, tanto più se è associato all’uso di strumenti quali libri o computer che obbligano l’occhio ad uno sforzo innaturale; infatti i muscoli che mettono a fuoco le immagini sono a riposo solo se le cose che guardiamo sono ad una distanza maggiore di otto metri; se sono più vicine, l’occhio si sforza quanto più le cose che guardiamo sono a poca distanza. Su questo rifletteva di recente anche la rivista Nature (“The myopia boom”, marzo 2015), che sollevando il problema, spiegava che ancora non è chiaro il nesso causale, ma è un dato di fatto che stare al chiuso faccia male agli occhi dei ragazzi.



Viene da domandarsi se questo pensiero passi nella mente di chi si occupa di scuola e pedagogia, perché la pedagogia non è solo in quello che si insegna ma anche nella forma in cui si insegna. O la scuola moderna è fondata più sulle esigenze del mercato e degli adulti che su quelle dei giovani? Esigenze del mercato: sembra che l’unico — per quanto notevole — scopo della scuola sia quello del rapporto col mondo del lavoro, misurando le esigenze di ciò che si insegna con quello “che serve” per essere un domani assunti; utile, ma non può essere tutto qui. Eppure dalla scuola diminuisce lo studio della storia, del latino, della filosofia, e aumenta quello di inglese, computer, materie tecniche. E poi esigenze degli adulti, perché gli orari scolastici sono pensati perché la scuola faccia da babysitter, cioè per coprire l’orario di lavoro dei genitori: inizio delle lezioni in orari in cui il bambino fisiologicamente dormirebbe (tanto più quanto ormai è consuetudine non mandarlo più a letto “dopo carosello”, cioè entro le 22, obbligandolo così a fare molto meno delle otto ore di sonno che sono fisiologiche per il suo benessere) e prolungamenti pomeridiani perché la scuola supplisca i genitori che non hanno modo di aiutare i ragazzi nei compiti a casa.



A proposito di diritti e ritmi dei ragazzi, pensate che la scuola aiuti davvero a sfuggire al moloch dell’inurbamento, della solitudine e della vita al chiuso moderni? L’American Academy of Pediatrics recentemente ha messo in guardia contro l’eccessivo uso dei massmedia elettronici nelle case, contro la presenza delle televisioni nelle camerette dei bambini, contro una presenza dei giovani davanti agli schermi superiore alle due ore al giorno e contro l’esposizione alla tv sotto i due anni (Pediatrics, novembre 2011).  

Se facciamo bene i conti, altro che due ore al giorno stanno i nostri ragazzi attaccati alla tv o al pc o al telefonino! Ed è un danno per i ragazzi che la loro vita si svolga prevalentemente al chiuso. Non è solo un danno agli occhi, alla postura, o un fattore di rischio per lo sviluppo di obesità e danno alla socializzazione. E la scuola non è certo un esempio che invoglia a metter fine a questa routinaria via alla perdita di contatto con il mondo (se non nella misura in cui noi lo riproduciamo in casa o nelle aule). Nel senso che usa troppa realtà riprodotta, con eccesso di strumenti riproduttori usati spesso in maniera acritica, e troppo poca realtà reale.



Ecco la riflessione di inizio anno scolastico, quando il problema della scuola sembra essere solo quello (seppur grave) di chi assumere e di quali classi accorpare: la scuola non è scuola se non insegna e invoglia e quasi obbliga ad andare fuori, a toccare, visitare, scoprire il mondo vero, non solo quello dei libri. Non a riprodurre il mondo secondo quello che ce ne serve o come noi lo immaginiamo. Serve arrivare a cambiare la modalità fisica e logistica dell’insegnamento stesso: meno ore, inizio mattutino più tardivo (American Journal of Public Health, luglio 2015), più spazi e più orizzonti, e più sguardo agli spazi e agli orizzonti esterni, insegnando una cosa centrale: ripiegarsi meno su se stessi e pensare al mondo. 

Non è un pensiero impossibile; basta guardare la cosa dal basso, cioè partire all’altezza del bambino (e del suo sonno o dei suoi occhi che si stancano troppo). La scuola deve essere fatta sui ritmi e i tempi dei ragazzi, anche domandandosi se ha un senso per i ragazzi (e non solo per chi insegna o programma gli insegnamenti) dividere con cancelli inapribili le varie materie, come se la matematica non avesse niente da insegnare alla filosofia e viceversa, o come se la ginnastica non avesse niente da insegnare all’inglese e viceversa. Pedagogicamente e pediatricamente, serve riportare una volta per tutti i ragazzi al centro di un’istituzione che pensa troppo agli adulti.