Nei mesi scorsi si è parlato molto della “Buona Scuola” e delle tanto attese nomine di decine di migliaia di docenti in ruolo. Si è parlato anche dei presidi sceriffo, di edilizia scolastica e poi dei grandi temi di cronaca, in primis la tragedia dell’emigrazione e l’apparentemente inarrestabile avanzata dell’Isis e del suo terrore totalitario. Sono temi ricorrenti nei media, temi che danno fastidio e provocavano disagio, e che tuttavia permangono poco nella nostra attenzione. Basti pensare con quale facilità è stata dimenticata la clamorosa strage terroristica contro i giornalisti di Charlie Hebdo dello scorso gennaio.
Eppure ora, tra queste notizie martellanti e la difficoltà diffusa a farle sedimentare nella memoria, si insinua silenziosa una domanda nei moltissimi docenti e negli studenti che stanno per incominciare il nuovo anno scolastico: “Che senso ha riprendere? Che senso ha la scuola di fronte alla realtà che abbiamo intorno? Che senso ha la scuola in generale?”. Questa domanda, che può apparire retorica, in realtà è la più decisiva per affrontare il tempo presente di migliaia di docenti e studenti.
Vorrei tentare a questo riguardo un collegamento tra il problema del senso e l’esigenza della giustizia, nell’ipotesi che la comprensione del senso di una cosa porti con sé il sentimento di una giustizia finalmente raggiunta tra sé e la cosa stessa. La domanda “che senso ha?”, infatti, è in molti casi un altro modo di esprimere la sensazione e la percezione di stare sperimentando un’ingiustizia, un equilibrio o una relazione buona e sana che si è rotta con l’altro, con noi stessi, col tempo libero delle vacanze che sta terminando.
Il problema del senso, e quindi di una giustizia riconosciuta alle cose stesse, non può essere strappato via. Può essere messo a tacere, negato teoreticamente forse, ma mai eliminato dalla prassi e dalle opinioni quotidiane. Il senso delle cose, della realtà tutta, ha sempre a che fare con la coscienza di adeguatezza o di inadeguatezza che l’interpretazione che diamo ha con la cosa o la circostanza che stiamo giudicando o vivendo. Ed è ancora il sentimento di una giustizia o di una ingiustizia vissute che reclama il nostro assenso o il nostro divieto, che accompagna un’esperienza di libertà o di schiavitù, di tensione alla conoscenza dell’ignoto o di chiusura nel preconcetto. Quanto è giusta la vita, la circostanza, la cosa che stiamo facendo o dicendo quando ne conosciamo il senso? Quanto sentiamo ingiusta quella parola o quella situazione di cui ci risulta estraneo il senso?
Il giurista Joseph Weiler, nella videointervista in uscita il 10 settembre sul sito romanaedisputationes.com, ha richiamato a proposito la centralità della figura di Abramo: “Quando Dio annunciò ad Abramo che sarebbe andato a distruggere Sodoma e Gomorra (Genesi, 17), Abramo non accetta e torna da Dio e gli chiede che cosa avesse fatto, se avesse trovato 50 persone innocenti. Sarebbe andato a distruggere le due città comunque? Con una sentenza indimenticabile poi chiede come sia possibile che il giudice di tutta la terra, Dio, non farà giustizia Lui stesso. Cioè contesta Dio. Fino a questo punto e per tanti anche oggi vige che se Dio lo dice allora significa che è giusto, invece Abramo lo rovescia: se non è giusto significa che non può essere Dio. Cioè Dio stesso è sottomesso alla giustizia e se c’è un’ingiustizia non può essere Dio“.
E dall’io al noi, dal dominio dell’individuale a quello del sociale e del politico, il passo è brevissimo e diretto. Nel contesto della globalizzazione multiculturale il filosofo americano John Rawls riapre il problema: “Come è possibile che possa esistere nel tempo una società stabile e giusta di cittadini liberi e uguali profondamente divisi da dottrine religiose filosofiche e morali diverse?” (Liberalismo politico, 1993).
Il problema della giustizia è sia teorico che pratico, e attraversa tutte le età e tutti i luoghi dell’umano, innervandone ogni aspetto. Ecco che il problema del senso si presenta sempre come un problema di giustizia sperimentata e vissuta – giustizia relazionale, economica, politica, ecologica, etc. Ecco che il sentimento di ripulsa o di disagio può trasformarsi nella volontà di agire, di cambiare in meglio le cose perché diventino finalmente quel che devono essere, ovvero giuste. Che l’ordine sia ricostituito, che la rottura si ripari, che la ferita si risani, che il ciclo riprenda, che l’errore sia corretto e perdonato. Che a ciascuno sia permesso di conseguire ciò ritiene proprio secondo il suo bisogno, il suo desiderio, il suo ideale. La stessa altalena dei diritti e dei doveri, quale che sia la nostra ideologia, ha come perno l’esigenza umana della giustizia, punto di appoggio di tutti gli altri valori.
A questo proposito le Romanae Disputationes 2015/16 (RD), giunte alla terza edizione, dopo la ragione e la libertà, pongono a tutti coloro che tornano a scuola proprio il problema di cosa sia “la” giustizia, nella sua interezza e senza ridimensionamenti. Gli studenti e i docenti saranno chiamati a lavorare e riflettere sulla propria esperienza per individuare e comprendere le radici, le condizioni e le espressioni di ciò che chiamiamo “giustizia”. Il confronto con la tradizione e l’attualità filosofica, storica e politica circa il problema della giustizia sarà arricchito da nove video-lezioni realizzate appositamente da accademici e filosofi quali Enrico Berti, Joseph Weiler, Wael Farouq, Francesco Botturi, Giacomo Samek Lodovici, Simona Beretta, Riccardo Redaelli, Paolo Monti, Luciano Eusebi e Adelino Cattani.
Il lavoro dei team di studenti sarà inaugurato dalla lectio magistralis del prof. Gustavo Zagrebelsky sul tema “Le radici della giustizia” il prossimo giovedì 29 ottobre presso l’Aula magna dell’Università Cattolica di Milano. Alla due giorni finale del 18/19 marzo 2016 a Roma, docenti e studenti ascolteranno e dialogheranno con Marta Cartabia, vicepresidente della Corte costituzionale, con Pietro Toffoletto, insegnante e musicista, e con Sebastiano Maffettone, docente di filosofia politica alla Luiss di Roma.
Iniziare l’anno così, proponendo in modo chiaro e nitido il problema della giustizia, è un’occasione stimolante per “giustificare” la scuola, per renderla ciò che dovrebbe essere: un luogo in cui praticare il bisogno di senso che ci troviamo addosso e poterlo mettere nuovamente in moto, dentro e fuori le ore di filosofia.