Le polemiche sull’assunzione degli ex-precari nella Buona Scuola di Renzi sono una sconfitta innanzitutto per il corpo docente. Con tutta la comprensione dovuta agli inevitabili disagi di spostamenti e di riorganizzazione famigliare e l’incognita anche economica di soggiornare in una città lontana dalla propria abituale residenza (peraltro molto amplificati dalla televisione, sempre in cerca di casi pietosi), ciò che appare è che c’è sempre un pretesto per il lamento. Il reclutamento in questi giorni è stato chiamato non di rado “deportazione”. Viene da chiedersi se si sappia il significato delle parole che si usano, anche solo come metafora.



Molto negativo questo atteggiamento previo. Soprattutto per chi si appresta, o continua, ad esercitare un ruolo così importante, benché misconosciuto, quello di insegnante. Forse le frustrazioni patite in anni di lavoro precario, malpagato, anche vilipeso da ogni parte, hanno contribuito a forgiare un tipo di personalità poco consona a far da punto di riferimento positivo per tanti ragazzi e giovani che per la loro età sono ancora pieni di speranza.



Come fa un adulto, laureato e abilitato, a vivere il suo ruolo di docente tra situazioni sempre più complesse per provenienza etnica e per composizione famigliare, se in primo luogo, davanti alla prospettiva di un posto finalmente sicuro, frappone innanzitutto gli inconvenienti che ne derivano? 

Esiste forse, in qualsiasi ramo dell’attività umana, il posto di lavoro perfetto e appagante sotto tutti i punti di vista? Vicino a casa, remunerativo, senza controlli, senza rischi, in modo che la vita scorra liscia e priva di intoppi? E’ chiaro che non esiste da nessuna parte e non si capisce perché questa sia la pretesa di molti, visto che non è realizzabile.



Persino Virgilio, in una società che disprezzava il lavoro manuale, ringraziava gli dei per aver dato agli uomini la fatica delle attività produttive per saggiarne e rinvigorirne l’intelligenza, per far sì che si rimboccassero le maniche.

Per gli insegnanti il lavoro non è manuale, è piuttosto paragonabile a un buon artigianato, fatto di esperienza, di pazienza, di tecnica, di ascolto, di soddisfazione per un’opera ben fatta, di rincrescimento per un’altra venuta male.

E invece siamo costretti a credere che il corpo docente, tutto preso dall’incombere di disagi logistici, consideri tutto questo e molto altro cosa indegna di considerazione, butti nella spazzatura anni di sacrifici da una scuola all’altra, di progetti, forse anche di iniziali idealità.

Non è uno spettacolo bello e non vorremmo averlo visto. Non vorremmo vederlo più. 

Già gli occhi sono stanchi di vedere da ogni parte profughi ed emigranti. Non è facile stare per molto tempo davanti al dolore di altri uomini. Stiamo vedendo cadere teste e templi e chiese. C’è chi si chiede come contribuire a ricostruire altrove ciò che viene distrutto, luoghi di pace e di stabilità dopo tanto cammino per terra e per mare. 

C’è bisogno che la scuola italiana offra nei suoi insegnanti l’impegno di una professione svolta con tutte le fatiche e le gioie del caso, ma senza piagnistei. C’è ben altro per cui piangere.