L’articolo anticipa i contenuti della relazione dell’autore in occasione del convegno, organizzato da Diesse Lombardia, dal titolo “Scuola, Lavori in corso. Opportunità e criticità nella legge 107/15”, 7 settembre 2015, Milano.

Tre sono le proposte per uscire dalla crisi della scuola: la restaurazione del rigorismo precedente agli anni 60, l’addestramento o surfismo mediatico, la cultura come arricchimento della vita personale e sociale. 



La legge 107 del 2015 dichiara di voler realizzare “una scuola aperta, quale laboratorio permanente di ricerca, sperimentazione e innovazione didattica, di partecipazione e di educazione alla cittadinanza attiva”. È condivisibile la scelta di una concezione vitale della scuola ed un’idea della cultura come qualità del persona in grado di innalzare il tono della socievolezza dei giovani, da inserire in modo attivo nel mondo reale. Ma per realizzare quanto dichiarato servono  tre condizioni: 1) misure adeguate per accrescere il protagonismo degli allievi, svincolandosi da un modello di scuola ancora eccessivamente “inerte”, reso tale da una didattica centrata in prevalenza sul trasferimento di nozioni ed abilità isolate e molto poco sull’acquisizione autonoma ed attiva di conoscenze e competenze capaci di arricchire il “curricolo per la vita” dei nostri giovani; 2) la flessibilità organizzativa, logistica e delle risorse umane così da rompere l’unica “catena di montaggio” residuo della società industriale e sviluppare percorsi formativi centrati sulle tappe di crescita degli allievi, realizzate alternando in modo intelligente l’aula, il laboratorio interno e l’esperienza formativa esterna all’istituto; 3) la formazione del personale e le risorse di supporto, ciò che è decisamente mancato nelle riforme precedenti, vera chiave del successo dell’attuale. 



Sullo sfondo, va tenuta presente una questione rivelativa dell’attuale stato organizzativo delle scuole: perché le buone pratiche spariscono? come farle permanere? 

Circa il protagonismo degli allievi, la legge introduce elementi interessanti: riduzione del numero massimo delle classi, possibilità di articolarle in sottogruppi e di fornire una formazione individualizzata, potenziamento della formula del laboratorio, didattica digitale, incremento dell’alternanza scuola-lavoro nel secondo ciclo, attività opzionali e curricolo dello studente da valorizzare durante l’esame di Stato, dispositivi di premialità del merito. 



Anche la leva organizzativa risulta tra gli obiettivi del legislatore, orientata alla massima flessibilità, diversificazione, efficienza ed efficacia del servizio scolastico, integrazione e miglior utilizzo delle risorse e delle strutture. Ambedue questi obiettivi sono legati però alla piena attuazione dell’organico funzionale, una sfida i cui esiti risultano quantomai incerti.

Per ultimo, si parla di formazione iniziale dei docenti, mentre per la formazione in servizio si fa riferimento unicamente ad un futuro decreto attuativo. 

Per attuare quanto indicato si punta sul Piano triennale dell’offerta formativa, da elaborare con il concorso del personale e dei soggetti del territorio, una sorta di mobilitazione generale delle risorse dell’autonomia della scuola, da sottoporre alla valutazione del sistema tecnico e degli stakeholder. 

È qui che emerge un clamoroso scarto tra la proposta e l’attuale situazione del sistema educativo: si ritiene che il “mestiere della scuola” sia modificabile con strumenti che pensano alla scuola come ad una struttura economica, non come una comunità. Si nota un’eccessiva fiducia nei sistemi tecnici, piuttosto che sulle forze vitali della scuola. Il legislatore attuale sembra ripetere gli errori dei suoi predecessori: credere al potere evocativo della norma giuridica, mentre l’efficacia della legge dipende decisamente dall’ethos diffuso tra coloro cui si rivolge. 

Gli insegnanti si trovano in una condizione di estremo disagio per la delusione circa i frutti del proprio lavoro e perché non vedono riconosciuti i propri sforzi; non basta prescrivere un metodo di lavoro nuovo, servono una reputazione ed un ethos capaci di restituire agli insegnanti non solo la funzionalità, ma anche la dignità e la soddisfazione del loro lavoro. Va conquistato nuovamente il senso dell’onore proprio di chi si dedica all’umanità dei ragazzi. C’è un deficit di “incantamento” che contribuisca a rendere avvincente l’opera educativa.

Le buone pratiche si dissolvono perché non sono espressione della normalità quotidiana del fare scuola, ma risultano frenate dal loro carattere straordinario. Questa ennesima riforma rischia l’ininfluenza se le scuole rispondono realizzando diligentemente il proprio “compitino” burocratico organizzativo o se si disperde in una frammentazione di interventi che non farebbero altro che aumentare l’attuale disordine. 

La “buona scuola” non può che essere un’autoriforma, l’esito di una mobilitazione educativa delle stesse scuole, sulla base di un’alleanza di ampio respiro, e non solo di fragili reti, unendo le forze per consentire un incontro vivo dei giovani con la ricchezza della tradizione; affinché, tramite curricoli essenziali e “gustosi” legati a compiti di realtà significativi ed utili, essi possano inserirsi positivamente nel reale, imparando il lavoro della cultura e accrescendo l’amore per la vita.  

Servono alleanze stabili tra scuole, associazioni ed enti che si assumano responsabilmente le mete indicate dalla riforma; che, in accordo con il Miur, siano liberate dagli inutili pesi della vecchia e nuova burocrazia e protette dall’invasione funesta dei temi alla moda e si concentrino su ciò che ha valore stabile; che infine con l’aiuto di una formazione in accompagnamento “somigliante”, crescendo insieme, formulino passo passo un curricolo “di terra e di cielo”, ricco di un’epica della quotidianità. 


Dettagli e programma del convegno su www.diesselombardia.it.