L’analisi dei dati forniti dal Miur a proposito dell’Irc (insegnamento della religione cattolica) nelle scuole statali e “lavorati” da Tuttoscuola conferma ciò che ogni scuola percepisce empiricamente: l’insegnamento di religione è massicciamente frequentato dall’87,9%; è in calo (del 5,5% in quindici anni); è sopra il 90% nella scuole di base e del primo ciclo, mentre sta all’81% nelle superiori; nelle Regioni del Nord il calo rispetto alla media nazionale è più vistoso; la Lombardia ha il numero più elevato di opzioni negative rispetto all’Irc. 



Questa messe di dati pone una meta-domanda radicale: questi dati a chi domandano cosa? A chi? Almeno a due soggetti: alle famiglie, alla società civile, alla politica; alla Conferenza episcopale italiana. Cosa? Quale ruolo formativo ed educativo dell’Irc? I dati di Tuttoscuola spingono a porsi quelle domande, ma non danno risposte. Che invece dà una ricerca svolta nel corso dell’anno scolastico 2010-2011, commissionata dall’Ufficio scolastico per l’Insegnamento della religione cattolica al Centro di Ateneo della Qualità dell’Insegnamento e dell’Apprendimento dell’Università degli Studi di Bergamo, pubblicata dall’Editrice Studium nel 2013, a cura di Fabio Togni, con introduzione di Giuseppe Bertagna e postfazioni di James Organisti e Elio Damiano. Era nata dall’estensione alla Lombardia di un lavoro analogo, che era stato svolto nella diocesi di Bergamo lungo gli anni scolastici 2006-2007 e 2007-2008. Il campione di questa ricerca è molto vasto: 6.670 studenti, il 10% dell’universo di studenti dell’ultimo anno di ciascun grado dell’ordinamento.



Rinviando gli eventuali interessati alla pubblicazione, basterà qui riportare l’essenziale. I questionari “interpellano” gli studenti su quattro nuclei tematici: biblico, teologico-dogmatico, cristologico, ecclesiologico. I risultati sono negativamente eclatanti. Il primo: gli studenti che hanno una buona conoscenza della religione cattolica sono compresi in un range tra il 20% e il 40%. Il secondo: ignoranza crassa della Bibbia. Terzo: l’indice di performance è superiore nelle scuole statali rispetto a quelle paritarie. Quarto: imparano di religione più fuori che a scuola. Alla domanda: “da chi hai imparato le risposte?”, relative ai quattro nuclei di cui sopra, gli studenti praticanti — il 38% del campione dell’ultimo anno delle superiori — rispondono: dalla lezione di religione a scuola 28,5%; dalle altre materie scolastiche 2,3%; dalla famiglia 20,2%; dalla catechesi 31,9%; dalla frequenza di gruppi, movimenti, associazioni 9,5%; dagli amici 1,9%; dai programmi televisivi 0%. Il 17,3% non risponde. Da ultimo: man mano si sale di età, decresce l’interesse verso l’Irc.



Fin qui siamo al livello della verifica delle conoscenze. Ma se facessimo il passo ulteriore e necessario, quello che si deve fare per ogni materia di insegnamento — la certificazione delle competenze — cioè accertare se la conoscenza diventi pietra angolare della costruzione dell’identità personale, del Sé, qui ci troveremmo nel regno dell’inverificabile. Dati non esaltanti, che nessun trionfalismo sul numero massiccio dei partecipanti all’Irc, quale emerge dalle statistiche ministeriali, dovrebbe coprire.

In effetti, si pone qui drammaticamente l’interrogativo sulla consistenza epistemologica e perciò didattico-educativa dell’Irc. In primo luogo, alla società civile italiana, alla politica, all’intero Paese. Se la domanda religiosa è una costante antropologica, cui le varie fedi hanno dato nella storia una risposta diversa, chiunque voglia educare la persona, si deve porre il problema dell’approccio al fenomeno religioso come “fenomeno umano”, per usare l’espressione di Teilhard de Chardin. L’attuale ora di religione non risponde alla domanda, alla necessità, al bisogno culturale di un’educazione civile integrale. L’effetto è l’ignoranza della Bibbia, l’incomprensione del mondo presente e dei suoi conflitti. Poiché la religione cristiana si è intrecciata alla storia delle civiltà; poiché, in particolare, essa sta alla base della storia e dell’identità europea, il deficit educativo e formativo è particolarmente grave. Nell’epoca della globalizzazione e dei conflitti tra sunniti/sciiti, del ritorno di persecuzioni sanguinose contro i cristiani, di un persistente antisemitismo, l’Irc cosiffatta è sostanzialmente inutile. Non spetta certo a me parlare dal punto di vista della Conferenza episcopale italiana. Ma osservo, dall’esterno, che un tale Irc non aiuta a conquistare la fede. La sensazione è che l’inadeguatezza dell’Irc contribuisca a far smarrire la fede trasmessa per via familiare.

Nato in un contesto storico in cui la religione cattolica era la religione dello Stato — così che l’insegnante di religione era, in quanto prete, funzionario della Chiesa e, in quanto insegnante, funzionario dello Stato – l’insegnamento della religione ha perso con il Concordato del 1984 l’aureola della religione di Stato, ma ha mantenuto contenuti e funzioni rispetto alla tradizionale organizzazione della didattica per materie.

Come indicano le due post-fazioni della ricerca, si aprono due strade per il futuro dell’Irc:

1. trasformare l’Irc in catechesi, come propone James Organisti, in base ad una constatazione antropologica — “la religione è una modalità radicale di accesso alla propria identità” — e cristologica – “la storia di Gesù non è che la rivelazione stessa” —. Questa trasformazione porta inevitabilmente l’insegnamento della religione fuori dalle mura dalla scuola pubblica. Neppure le scuole cattoliche paritarie potrebbero offrire catechesi. Solo la comunità dei credenti può farlo.

2. scolarizzare integralmente l’Irc, come propone Elio Damiano, individuando “oggetti di conoscenza non catechetici e non teologici”, bensì, appunto, storico-culturali. Questa strada porta ad integrare l’Irc nelle altre discipline, facendone un punto di intersezione. Ma qui si dovrebbe aprire la discussione sulla scelta e la preparazione del personale docente dell’Irc. Finora la Cei si è sempre rifiutata di riesaminare l’assetto istituzionale e culturale dell’Irc, perché il Concordato assegna ai vescovi il potere di scegliere gli insegnanti di religione. La contrattazione tra la Cei e il ministro Moratti portò nel luglio del 2002 all’approvazione di un decreto, elaborato sulla base di un analogo disegno di legge a suo tempo presentato dall’ex ministro diessino De Mauro e già approvato dal Senato nella precedente legislatura con la maggioranza ulivista, che tolse dal precariato gli insegnanti di religione, collocandoli in ruolo, sempre previa approvazione del vescovo. Ovviamente, la piena scolarizzazione dell’Irc non impedisce la contemporanea “catechizzazione” in ambito di comunità credente, in primo luogo nelle parrocchie.

Intanto, questa ricerca non è entrata nel dibattito pubblico. E’ stata diplomaticamente consegnata alla critica roditrice dei topi. Eppure, la realtà è davanti agli occhi: il fallimento sostanziale dell’Irc. Oggi gli occhi di chi dovrebbe guardare sono coperti dal velo opaco di interessi materiali — al Sud le numerosissime sedi vescovili non vogliono perdere il potere di assegnare posti di lavoro — e di conservatorismo ideologico. Intanto i nostri ragazzi restano i più ignoranti d’Europa in fatto di Bibbia e più analfabeti religiosi. Quanto tutto ciò possa minare la formazione dell’uomo e del cittadino già si può vedere.